Una famiglia. Maria, mater dolorosa

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Tosi Siragusa

Una famiglia. Maria, mater dolorosa

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domenica 22 Ottobre 2017 - 06:00

Sulla rotta della decima musa: una figura subalterna al centro di una anomala famiglia. Impressioni a cura di Tosi Siragusa

Serata molto densa e interessante presso la Saletta Fasola del Multisala Apollo, ove alla speciale proiezione del film Una famiglia ha fatto seguito una tavola rotonda moderata da Marco Bonardelli con dibattito sulle scottanti tematiche trattate, cioè le contraddizioni insite nell’attuale sistema – adozioni e la maternità surrogata con i suoi connessi aspetti legali, bioetici e psicologici. Era presente il regista Sebastiano Riso, che dopo essere stato presentato da Loredana Polizzi e aver dialogato con Marco Bonardelli, si è confrontato con esperti quali la dott.ssa Nina Santisi, assessore alle politiche sociali del Comune di Messina, l’avvocato Cinzia Fresina, quale responsabile della Sezione cittadina “AIAF” e ancora la professoressa Marianna Gensabella, docente ordinario di bioetica presso UNIME, e infine la dott.ssa Maria Gabriella Scuderi, nella sua qualità di psicologa e psicoterapeuta di coppia.

Nell’ultima parte della serata, infine, alcuni esponenti di associazioni contro la violenza sulle donne (a tal proposito era presente il posto occupato per ricordare le vittima di genere) hanno conferito il proprio documentato apporto. Quanto all’opera filmica, proposta al Rio de Janeiro International Film Festival dopo il passaggio in concorso alla 74° Mostra del Cinema di Venezia e la distribuzione nelle sale, è stata sceneggiata dallo stesso Sebastiano Riso, unitamente a Andrea Cedrola e Stefano Grasso, ed è di difficile soggetto, non rassicura e non vuol farlo, è anzi urticante, affrontando una tematica davvero scomoda. Il film nella sua avventura veneziana ha ricevuto le lodi di autorevoli critici quali il Mereghetti e il Pontiggia, il pubblico, invece, ha avuto reazioni controverse nei confronti di questo dramma di forte impatto, centrato sul corpo delle donne. La famiglia inquieta dell’intitolazione, in una Roma distratta e periferica, non è certo quella da Mulino bianco, con Vincenzo – nato come Vincent vicino Parigi – che però si è sradicato, e Maria che, per motivi ignoti, non ha più legami con la famiglia di origine, ostiense. In queste premesse di pregresso isolamento dei due, già come individui e poi come nucleo familiare, si è dunque innestato il loro progetto, contrassegnato da ossessiva ripetitività, che Vincenzo propugna e per così dire impone nei fatti a Maria, che ne subisce le pressioni, essendo anche più giovane e comunque a lui sottomessa, fino a farsi complice di crimini. E così la protagonista procrea a scopo di lucro per consegnare, attraverso squallidi giri, i figli a coppie sterili, fin quando, molto debilitata, non intuisce che potrebbe esser giunta all’ultima gravidanza e vorrebbe avere una vera famiglia e un suo bimbo. Maria appare per Vincenzo l’unica fonte di reddito con quella sua ricca fertilità, che però, in quanto abusata, l’ha prosciugata della sua energia vitale. Per Maria Vincent forse un tempo è stato miraggio di salvezza, ora però è anche un severo controllore:fra i due sembra però intercorrere un patto misterioso e una forte carica erotica. Il lungometraggio è nel complesso molto convincente, certo non è per tutti i gusti, in quanto estremo, ma è assai coraggioso, e rimane impresa in particolare la figura di madre bambina con i capelli troppo ossigenati e lo sguardo assente, che non è certo tratteggiata quale eroina in senso classico, ma alquanto malconcia e infelice, costretta a farsi forza abbracciandosi da sola dentro un giubottino rosa cipria, schiacciata come è dal compagno, il cui dominio psicologico è assoluto: in quello sbilanciato rapporto, con uno dei due padrone e carceriere, Maria, sulla cui innocenza si potrebbe certo discutere, si fa succube, troppo mite, silenziosa e fragile forse per essere reputata davvero colpevole, fino al finale, che vedrà la sua liberazione da quell’enorme fardello, con un progetto che sembra meditare fin dall’inizio del film, nella scena in metropolitana (la storia inizia infatti quando nasce in lei la fiammella della ribellione).

Micaela Ramazzotti è perfetta interprete e portavoce di questa donna subalterna, che fino alle ultime battute non è stata protagonista della propria drammatica esistenza, schiava di un rapporto morboso, personaggio figlio di questi nostri tempi insomma, in cui il triste fenomeno delle madri surrogate, nelle molteplici sfaccettature, per lo più impensierisce, anche se qualche volta, riconosciamo, potrebbe migliorare la vita delle persone. Quel mercato illegale origina certo anche dalle difficoltà di procedere a regolari adozioni, per impossibilità insuperabili di essere considerati idonei, o per le lungaggini e onerosità del nostro sistema, elementi tutti questi ostativi alla realizzazione per alcuni della auspicata genitorialità e ciò in presenza di tanti bambini che avrebbero bisogno di essere adottati; spesso il mercato nero dei neonati scaturisce anche dalla loro maggiore appetibilità rispetto ai bambini più grandicelli, che potrebbero aversi attraverso le adozioni, e anche questo aspetto, come gli altri, andrebbe dunque corretto. Il lungometraggio, girato a basso costo e la cui ottima regia si pone sempre in modalità non giudicante – con sospensione cioè del giudizio – si è basato su intercettazioni telefoniche e documentazioni sul traffico dei bambini, e dunque su elementi reali, in un contesto ormai incombente, di cui è necessario tener conto.

Da queste esistenze al limite, in pieno dramma esistenziale e coniugale, si trae una sollecitazione ad aprire gli occhi e ad interrogarsi sui rapporti umani di dipendenza e prevaricazione: scioccante è la modalità fredda prescelta dalla regia per raccontare quell’amore, inferno di tormenti e silenzi, di colpe anch’esse silenziate, e quelle gravidanze reiterate appaiono azioni abiette e abbrutenti, che coinvolgono esseri innocenti. Patrick Bruel, chansonnier francese, è un interessante Vincent e bene esprime le sue asprezze e l’anaffettività, fino alla caduta finale e alla scellerata scelta di un’altra giovane vittima in situazione di debolezza con cui dare inizio allo stesso aberrante rituale. Meritevoli di citazione anche gli altri interpreti, fra cui Pippo Delbono, Ennio Fantastichini e Matilda De Angelis; e ancora Fortunato Cerlino, Marco Leonardi, Alessandro Riceci e Sebastian Gimelli Morosini, nei panni tutti di personaggi psicologicamente ben tratteggiati. Le musiche originali sono di Michele Braga. Il valente regista Sebastiano Riso è catanese, con laurea a Roma all’Accademia Internazionale di Belle Arti, frequenza di prestigiosi stage e collaborazioni nazionali e internazionali, con realizzazione di videoclip, fra i quali quello per “Kola Lola” di Fucsia, alias Davide Cordova, e incarico di assistente alla regia per Emma Dante, Roberto Faenza, Alberto Sironi e Vittorio Sindoni. Il primo suo lungometraggio è stato “Più buio di mezzanotte” ove mostrava già attenzione per i temi estremi, segnalato in fase di trattamento al Premio Solinas, con il sostegno dell’Assessorato Regionale siciliano Turismo e Spettacolo e di Sicilia Film Commission, presente alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2014, con gran successo; l’esordiente Davide Capone ne è stato valido protagonista, nei panni di un giovane omosessuale nel suo processo di maturazione, con Micaela Ramazzotti nei panni della madre.

Tosi Siragusa

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