Ateneo senza democrazia

Ateneo senza democrazia

Ateneo senza democrazia

lunedì 23 Giugno 2008 - 11:37

A fare questa pesante affermazione Daniele David della Nidil Cgil che aggiunge: “Per i precari condizioni di lavoro inaccettabili-

“Per i precari della ricerca dell’Università nessuna democrazia-. Ad affermarlo Daniele David della Nidil Cgil, il quale prosegue specificando che “Mentre il Governo nazionale si prepara a lanciare l’ennesimo siluro contro quello che resta dell’università pubblica, a livello locale il confronto tra l’Ateneo di Messina e le organizzazioni sindacali sulle condizioni di lavoro dei 1.500 precari della ricerca è praticamente fermo allo scorso febbraio.

Così i dottorandi restano con 800 euro al mese, i post-doc pure (ma senza contributi previdenziali), gli specializzandi continuano a ricevere una pessima formazione (però gli si negano le ferie, la malattia e il congedo formativo) e gli assegnisti di ricerca si misurano con l’ennesimo contratto a termine. Naturalmente tutti, nei fatti, sono esclusi dal “governo- dell’Ateneo: basti pensare al veto grottesco che impedisce ai precari presenti nel Senato Accademico di poter votare o alla totale esclusione dal CdA e dai consigli di facoltà. Insomma, quanto a democrazia questo Ateneo, nonostante i suoi 460 anni, deve fare ancora molta strada…

Del resto l’art. 1 dello Statuto dell’Università si limita a dire che “l’Università degli studi di Messina è una istituzione pubblica dotata di autonomia, che raccoglie la tradizione culturale dell’antico Studium messanense generale e la rinnova nella ricerca scientifica e nell’insegnamento, assecondando la vocazione mediterranea ed europea della città e della comunità dello stretto-. Alla democrazia, intesa come forma politica di gestione della vita sociale, manca un esplicito riferimento. Né, tale limite formale, è stato superato da una pratica effettivamente rispondente agli effettivi bisogni della parte meno tutelata dell’accademia. A tanti specializzandi è negato il diritto di ammalarsi o di recarsi presso un’altra struttura per la propria formazione: queste possibilità passano, naturalmente, dalla disponibilità del proprio “superiore-. Come spiegare il senso di questa e di tante altre discriminazioni?

Le ragioni per le quali ci si ostina a mantenere il precariato in condizioni di lavoro – quantomeno sul terreno contrattuale – ottocentesche vanno ricondotte alla necessità dell’Accademia di negare “autonomia- a quella parte che, per caratteristiche generazionali e professionali, più di altre potrebbe mettere seriamente in discussione un sistema universitario infestato da privilegi, nepotismi e corruzione. La precarietà diventa una tenaglia in cui viene stretta una persona: da una parte la difficoltà economica, l’ansia per un contratto che scade, la negazione di diritti essenziali (la rappresentanza, la malattia, il riposo psico-fisico, la formazione) dall’altra la mortificazione di doversi “adeguare-, di conformarsi ad una condizione che appare senza alternativa, in cui vale solo l’obbedienza.

In queste condizioni appare lontanissima perfino la nostra Costituzione, in cui il lavoro è addirittura parte delle definizione della nostra comunità nazionale (art. 1 Cost.) ed al lavoro, nelle indispensabili forme di tutela, è dedicata parte dei principi generali della Carta Fondamentale (art. 2 , sulla solidarietà, art. 3 sul principio di eguaglianza sostanziale, art. 4 sulla specifica tutela del lavoro).

Forse sarebbe stato opportuno, nello statuto di questo Ateneo, dare più spazio alla nostra costituzione. All’art. 41 per esempio, dove si dice che il datore di lavoro è libero di fare il datore di lavoro, ma con il limite della tutela dell’integrità della persona e del rispetto della dignità umana-.

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