A quattro giorni dal disastro, viaggio tra i fotogrammi dell’Apocalisse

A quattro giorni dal disastro, viaggio tra i fotogrammi dell’Apocalisse

A quattro giorni dal disastro, viaggio tra i fotogrammi dell’Apocalisse

martedì 06 Ottobre 2009 - 11:05

Reportage tra i villaggi devastati dal fango. Le emozioni e il dramma raccontate attraverso le foto di Dino Sturiale

I volti tristi, le immagini della tragedia e gli attimi concitati dei primi soccorsi lasciano spazio al lavoro meno illuminato dalla luce dei riflettori, ma forse ancora più duro. E’ quello del giorno dopo, quello che ha come obiettivo una missione quasi impossibile: tornare alla normalità. Il nostro viaggio parte da Briga marina, dove la strada è diventata un campo di battaglia. Non ci sono state esplosioni, né bombe. Solo fango, che con l’arrivo del sole si è indurito fino ad arrivare al paradosso che adesso serve ancora acqua, affinché la fanghiglia si sciolga e liberi le strade. Si “avverte” a pelle il sudore della gente. Tanti i privati al lavoro, da queste parti sono più loro che le forze pubbliche. Vanghe in mano, mezzi di fortuna, piccoli bobcat e una forza di volontà spaventosa. Prima si liberano gli ingressi di casa, poi si pensa alla via principale e alle piazzette, compresa la conosciuta come quella -degli innamorati-. Scontrandosi con assurdità ingegneristiche, come i tombini inclinati dal basso verso l’alto (!). Qualcuno ricorda l’esperienza del 2007: «Allora c’erano meno persone, ma più organizzazione. Non vogliamo fare polemiche, per carità, ma oggi c’è poco coordinamento, con una maggiore concentrazione di aiuti a Giampilieri. C’erano tante persone anche qui, è vero, ma molti, non sapendo cosa fare perché non indirizzati, finivano per non fare nulla».

Il viaggio verso Giampilieri superiore è un’ascesa verso la catastrofe. Lo scenario è ancora devastante, ci sono però più volontari e addetti ai lavori. Ma nelle prime ore del dramma i veri soccorsi sono arrivati dai cittadini, qualcuno salito a piedi da Briga e Giampilieri marina. Qualcuno recrimina: «Anziché perdere due giorni per spalare il tunnel e aprire il transito ai mezzi di soccorso, si sarebbe potuto sfondare il muretto della ferrovia e salire subito». E’ la rabbia di chi ha vissuto minuti che sembravano eterni. Sono agghiaccianti i racconti di chi si è avventurato già dai primi istanti, magari dopo essere appena uscito “dal finestrino” della propria auto. «Non si capiva niente, – ricorda Salvo – non dimenticherò mai l’immagine di un uomo che aveva le gambe dietro la testa. Era letteralmente piegato in due. Non potevamo lasciarlo lì, seppur morto. Abbiamo provato a tirarlo via, ma in mano c’è rimasto solo un braccio». E ancora: «In mezzo al fiume di fango provavamo a camminare sui vari oggetti che emergevano dall’acqua. Solo dopo ore ci siamo accorti che “quello” non era un cuscino bianco. Era il cadavere di una donna». E’ ancora più orribile, forse, sentir parlare di sciacalli. Santino ci racconta della rabbia della gente sfogata su chi tentava di approfittare della tragedia per arricchirsi. «Sai quanto oro c’è qui sotto», rispondevano a chi incredulo chiedeva spiegazioni.

Nella strada che porta a Scaletta, il mare si tinge di due colori, mentre il fango costruisce un “porticciolo” naturale. E proprio alle porte del paese, un biglietto da visita che fa riflettere: il cantiere di una casa di tre piani, proprio sotto la montagna, sbancata per buona parte. “Benvenuti a Scaletta Zanclea”, recita il cartello giallo sotto il quale si legge tra la polvere: “zona balneare”. E proprio dietro il cartello ecco il paese sventrato a metà, o meglio ciò che ne rimane. Per raggiungere la palazzina divenuta simbolo della tragedia, abbattuta proprio ieri, ci si avventura dalla ferrovia. Se l’occhio guarda a sinistra, sulla spiaggia ci sono carcasse di auto, mentre si respira un’aria quasi di tremenda attesa. L’attesa che il mare ci riporti qualcuno. L’occhio che va a destra, invece, scorge i segni di una quotidianità che non c’è più. Sono le vecchie case, intatte dal secondo piano in su, nelle quali per anni e anni il tempo è stato cadenzato dagli orari di passaggio dei treni. Sotto ci sono cortili colmi di fango e di quegli oggetti che ormai non serviranno più: stendi-biancheria, piccoli elettrodomestici, tavoli e sedie. In un balconcino ci sono decine di noci, sparse qua e là, galleggianti su una pozzo di acqua, fango e vino rosso. Di quello buono.

Si arriva dunque all’inizio vero e proprio del paese. All’inizio dell’apocalisse. Il ritratto nudo e crudo della forza della natura e della devastazione. Gli agenti del Ris sono al lavoro, ma noi non troviamo spazio per l’analisi tecnico-scientifica. Ci si sofferma sulle cartoline del dolore e della distruzione. Lo sguardo cade sui particolari: un gatto stanco che miagola, immobile, sulla scala di casa, in attesa del ritorno di un padrone che forse non rivedrà; un’anziana quasi incredula che appare e scompare sul suo balcone, quasi ad attendere impaziente che tutto questo finisca; la chiesetta invasa dal fango, con le steli dei sacerdoti appese fuori; la bottega di alimentari, metà distrutta e metà perfettamente intatta, anche nei suo prodotti sistemati in ordine sugli scaffali. Il proprietario ricorda quanti sacrifici ha dovuto fare per ricostruire «da solo» quel negozio dopo il 2007. E confessa: «Non so se ho la forza di ricominciare». Fa male, è un pugno nello stomaco la vista dei simboli di tante infanzie ormai stravolte: un bambolotto, ricoperto di terra; un porta enfant, ancora in un sacchetto; una bicicletta, completamente ribaltata e “schiaffata” su un muro, al quale è rimasta appesa da allora; un pallone di Winnie Pooh abbandonato in un balcone. A bordo della strada ci sono accatastati tubi enormi, ma non sono tubi qualunque: sono le condutture che portano l’acqua da Fiumefreddo, circa 30 metri di tubature devastate, ci spiegano.

Le finestre completamente aperte, ma forse sarebbe meglio dire sventrate, quasi ci costringono a scorgere dentro le case ciò che non c’è più. Le famiglie hanno lasciato le proprie dimore, lì sono rimasti gli effetti personali, gli elettrodomestici, i divani, le sedie, i televisori. Ciò che non è stato spazzato via finisce per diventare un tutt’uno coi detriti, in un ordine trasformatosi in caos. Della vita di ogni giorno non si distingue quasi nulla, se non quei lampadari rimasti inspiegabilmente appesi al soffitto. Il via vai di gente è continuo, insieme ai mezzi che tentano di liberare le vie d’accesso. Spalano il fango, indirizzando verso il mare tutto. Tutto. Le azioni sono frenetiche, negli occhi scorgi la stanchezza di chi è lì da quattro giorni, ininterrottamente, e nonostante ciò il lavoro da fare è ancora tanto. A passi faticosi i nostri stivali lasciano anche Scaletta, ma sotto le suole rimangono i segni di un viaggio di andata e ritorno nell’inferno.

SEBASTIANO CASPANELLO – EMANUELE RIGANO

Nella fotogallery il percorso per immagini realizzato da DINO STURIALE

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