Sicurezza sul lavoro, non si può aspettare che ci scappi il morto

Sicurezza sul lavoro, non si può aspettare che ci scappi il morto

Sicurezza sul lavoro, non si può aspettare che ci scappi il morto

giovedì 31 Gennaio 2008 - 08:14

Continua la nostra foto-inchiesta: cantieri non a norma, operai che rischiano la vita ogni giorno. Il medico Angelo Vasi: «E' fondamentale la formazione del lavoratore»

Andare a lavorare non può significare rischiare la vita. Partiamo da questo sacrosanto presupposto che nel terzo millennio dovrebbe essere scontato per riprendere le fila della nostra inchiesta sulla sicurezza sul lavoro iniziata poco più di un mese fa. Continuando a girare per la città, si incontrano in ogni zona, da nord a sud, cantieri non in regola, operai che fanno gli equilibristi a decine di metri d’altezza, lavoratori con pesi enormi sospesi sulla loro testa e il casco appeso poco più in là. Un quadro sconcertante, che avevamo già analizzato il 21 dicembre scorso con il segretario della Cisl Maurizio Bernava, e che oggi riprendiamo insieme ad un esperto di medicina del lavoro. Il punto è: si aspetta che ci scappi il morto per intervenire? Cosa fanno gli organi di vigilanza? Puntare il dito sui singoli lavoratori è ingeneroso, perché spesso la necessità di avere una busta paga si accompagna al silenzio e all’accettazione di condizioni anche -fuori norma-, sebbene non siano rari i casi di superficialità e di poca attenzione. La nostra inchiesta e il nostro reportage, riportato in photogallery, naturalmente proseguiranno, perché andare a lavorare è un diritto, non una roulette russa.

«L’edilizia è il settore più a rischio, dove gli infortuni avvengono con maggior frequenza». A parlare è Angelo Vasi (nella foto), uno dei primi medici competenti del lavoro di questa città, con il quale abbiamo parlato proprio di sicurezza nel mondo del lavoro, tornando sull’argomento che abbiamo trattato poco più di un mese fa, rinnovando con nuove foto un reportage ricco di spunti -preoccupanti-. «Spesso i sistemi di prevenzione non sono rispettati – afferma Vasi – gli infortuni, infatti, possono essere prevedibili, perché legati strettamente all’attività lavorativa, ed eccezionali, cioè dovuti a fatti estemporanei non prevedibili. I primi possono essere non dico eliminati, ma quanto meno contenuti applicando le norme. Ma è relativa la questione delle norme. La famosa legge 626 sulla sicurezza nel lavoro, infatti, non ha portato grosse innovazioni a parte il sistema sanzionatorio, divenuto penale. La novità vera, quella più importante, è che il lavoratore, da soggetto passivo sul tema della sicurezza, diventa attivo. Nel Servizio prevenzione e protezione, infatti, dove prima avevano voce in capitolo solo il datore di lavoro e il responsabile della sicurezza, viene inserito anche un rappresentante dei lavoratori (Rls), il quale obbligatoriamente deve usufruire di un corso gratuito di formazione sulla sicurezza, da svolgere nelle ore di lavoro».

Secondo Vasi, è «la formazione il punto centrale della questione. Se c’è una buona formazione, e dunque informazione, gli infortuni diminuiscono. La legge prevede due tipi di misure preventive, i cosiddetti DPG (dispositivi di prevenzione generale), per evitare rischi relativi, ad esempio, alle macchine non a norma, e i DPI (dispositivi di prevenzione individuale), ovvero tutto ciò che viene fornito al lavoratore per evitare rischi nell’attività lavorativa e infortuni, come scarpe, caschi, guanti, secondo l’attività e quanto previsto dal Rilevamento dei rischi del lavoratore, redatto a cura del datore di lavoro. Questo documento viene prima della sorveglianza sanitaria, il medico dunque entra in gioco dopo».

Gli strumenti di prevenzione esistono già: «Per prevedere gli infortuni, è necessario fare una statistica, che inevitabilmente incide sulla prevenzione. Strumento utilissimo diventa il Registro degli infortuni, obbligatorio per tutte le aziende, nel quale si registrano, appunto, tutti gli infortuni che avvengono sul lavoro. Per quelli con prognosi superiore a tre giorni è necessario fare segnalazione all’Inail, per quelli più gravi alla magistratura. Verificando anno per anno l’incidenza e la tipologia di infortunio, è più semplice l’attività di prevenzione».

Vasi torna sul ruolo cruciale della formazione, «fondamentale anche nel caso in cui la ditta è in regola e mette nelle condizioni il lavoratore, ma questi non è formato sulla sicurezza. Ad esempio, l’uso del casco. Capita che non sia idoneo, e il lavoratore sufficientemente formato lo potrebbe segnalare al datore di lavoro. Stesso discorso per le scale, spesso se ne usano non a norma perché nemmeno si sa che non sono a norma. Per questo insisto su questo è punto, l’occasione che il lavoratore ha di essere parte attiva nella sicurezza non va persa».

«Ci sono altre tipologie di problemi, – continua Vasi – a parte il lavoro nero, per il quale parlare di formazione è impossibile, esiste la questione dei lavoratori a tempo determinato. Chi viene assunto per sei mesi, ad esempio, difficilmente verrà formato in quel breve periodo di tempo. Ma si dovrebbe entrare nell’ottica che oltre a mettere in pericolo se stessi, si mettono in pericolo anche gli altri. I datori del lavoro – prosegue – sono tenuti a vigilare sulla formazione dei propri lavoratori e sull’uso da parte loro di tutte le misure di sicurezza. Nel caso in cui il lavoratore, ad esempio, non usa il casco o i guanti, il datore può procedere per tre tappe: la segnalazione verbale, per iscritto o addirittura il licenziamento per giusta causa. Il discorso della formazione riguarda anche gli organi di vigilanza, che non possono limitarsi a sanzionare, ma piuttosto dovrebbero dare la possibilità alle aziende di colmare le inadempienze rilevate. Attualmente, per mancanza di personale, gli organi di vigilanza intervengono solo su segnalazione, e in questo caso – conclude il dott. Vasi – parlare di prevenzione risulta complicato».

(foto Dino Sturiale)

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