Domenico "Micio" Tempio, poeta erotico e irriverente nella Sicilia del ‘700

Domenico “Micio” Tempio, poeta erotico e irriverente nella Sicilia del ‘700

Vittorio Lorenzo Tumeo

Domenico “Micio” Tempio, poeta erotico e irriverente nella Sicilia del ‘700

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domenica 13 Gennaio 2019 - 06:42
CULTURA

Minchia mia de stu miu cori,
 'nzuccarata minchia mia!
 Stu me cori spinna e mori,
 suffrirà senza di tia” scriveva un poeta siciliano all’ombra dell’Etna nel XVIII secolo mentre in Francia gli illuministi davano alle stampe l’Encyclopédie. Il suo nome era Domenico Tempio, noto soprattutto con il nome Micio, considerato in assoluto il nome siciliano per la poesia epigrammatica erotica insieme ai contemporanei Ignazio Scimonelli e il trapanese Giuseppe Marco Calvino, genere che ebbe esponenti illustri anche a livello nazionale, come Cecco Angiolieri nel ‘Trecento e Giuseppe Gioacchino Belli nell’Ottocento. E tale egli rimase per lunghi anni, finché la critica storica e letteraria, accostandosi senza preconcetti alla vita e all’opera del poeta, è riuscita in parte a rimuoverne la taccia di immoralità, mettendo in risalto i pregi di alcuni mirabili componimenti e giustificando, da un punto di vista etico e sociale, i prodotti letterari più realistici. Indipendentemente da questa riabilitazione il Tempio ebbe molti estimatori, sebbene le voci di questi rimanessero vane nel coro della sua fama di poeta da trivio, di perdigiorno, dedito alle donne, al bere e ad ogni genere di vizio. Il formarsi di questa leggenda attorno al vero Tempio, che invece i suoi contemporanei dipingevano come un uomo di sani principi e costumi, lontano da cariche e da onori e stimato dagli uomini di studio, è stato allora determinato da varie circostanze. Nato a Catania il 22 agosto del 1750, terzo di sette figli di un mercante di legna, era stato destinato al sacerdozio, ma la lettura degli illuministi francesi lo aveva portato a sviluppare una posizione conflittuale nei confronti del classicismo arcaico e del platonismo tardorinascimentale che si respiravano in seminario. Inevitabile fu l’abbandono. Nel 1773 fece il suo ingresso nell’Accademia dei Palladii, mentre due anni più tardi morì il padre e tra le difficoltà economiche e una modesta quotidianità trascorse il resto della vita senza mai lasciare Catania fino alla morte, sopraggiunta il 4 febbraio 1821. Il carattere, che fin da fanciullo dimostrò veemente e bizzarro, la cultura, di carattere fortemente razionalistico e il beffardo modo di guardare la società in cui viveva, alimentarono la sua fama di poeta provocatorio e irriverente. Nella sua opera si agita, scomposta e violenta, una turba di esseri umani tratti dalle vituperevoli categorie del vizio che ci riporta ai crudi scenari del Naturalismo francese e che fa da protagonista o da sfondo ai suoi epigrammi, che spesso improvvisava contro questo o quel personaggio, ad aneddoti piccanti e distici osceni. Tutto ciò influì nel far seppellire la sua opera in archivi impolverati, facendo sì che la fama del poeta fosse avvolta da una “luce oscura” e la sua poesia rimanesse negletta e ignorata. Eccezion fatta per qualche saggio infatti, essa rimase per lungo tempo inedita e circolò manoscritta. Soltanto nel 1814, quando cioè Micio Tempio aveva 64 anni, per merito di Francesco Strano, suo amico, furono date alle stampe le prime opere. La Carestia, suo maggiore poema, vide la luce addirittura ventisette anni dopo la sua morte, nel 1848. Di lui il biografo Francesco Ferrara scriveva che “non aveva rivali allorché spaziava nei giardini misteriosi di Flora, fra le olezzanti rosee tinte del sangue di Venere” e che “non aveva tarpate le ali nel dipingere la natura nel suo nudo”. Tempio, “poeta cui fu dato toccar molti stili” trattò con vena facile, rima vivida, fantasia capricciosa e non senza una geniale intuizione del bello anche attraverso la rappresentazione della realtà più cruda e obbrobriosa, quasi tutti i generi letterari: il poema, il poemetto, il dramma, la lirica. Autore di più di cento ottave e sestine, cantate ed odi, è noto soprattutto per gli amarissimi epigrammi, in cui emerge chiara la sua personalità, piena d’impeto, ora arguta, ora sboccata, ora mordente e scettica, ma soprattutto l’indipendenza del suo carattere in quell’epoca nella quale clero e nobiltà, aventi in mano le pubbliche cariche, spadroneggiavano. La lingua che usa è il dialetto nella sua forma meno rozza e più colta, quella propria dei ceti elevati, alternando a questo termini plebei, voci di gergo, proverbi e modi di dire propri delle classi più umili. A tal proposito si dice che egli andasse in mezzo al popolo, per cogliere gli elementi utili all’efficacia della rappresentazione dei tipi e dei costumi. Ma Tempio risulta anche geniale nell’adoperare una terminologia che si ispirava al latino giuridico in riferimento ad atti o attributi sessuali e un utilizzo satirico di cavilli ed eufemismi tipici della giurisprudenza del tempo. Micio era un fine conoscitore delle turpitudini umane e non si faceva scrupolo di descriverle nelle novelle, nelle cantate e nelle odi, traendone argutamente il principio morale. Mastru Staci, Patri Siccia e Lu Coitu imperfettu sono esempi tipici. Mastru Staci, povero materassaio assai poco virile, mentre è oggetto di curiosità da parte del marito, diventa strumento di lascivia da parte della moglie per la dabbenaggine del primo, che confidenzialmente parlando con la consorte, esalta le qualità fisiche del pover’uomo. Allora il poeta, inviando il racconto ad un amico che è sul punto di passare a matrimonio, espone una serie di avvertimenti: “Prima però di maritarivi, vosi sta novelletta mia farvi sintiri, acciò a li donni mai di certi cosi si discurrissi, o visti, o ‘ntisi diri: tuttu si taccia, e vi lu dicu espressu, c’è periculu granni cu stu sessu”. Patri Siccia è invece una spietata satira contro il vizio della pederastia, che nei conventi di allora prosperava, mentre Lu Coitu imperfetto descrive le impreviste conseguenze di un congiungimento sessuale. Col dramma La Disgrazia di li Pila entra nell’ambiente familiare per vilipendere la nobiltà decaduta che ancora ostentava grandezza, mentre attraverso la Scerra di Numi mette in burla un poetastro e un medico contendentisi una delle tante cariche ecclesiastiche. Altri ancora sono Lu Cuntrastu Mauru, Li Pauni e li Nuzzi, Lu Iaci in Pritisa e La Fera in Cuntrastu. Si tratta di drammi intrisi di materia mitologica impostati quasi con lo stesso schema: due o più divinità disputantisi il governo di un uomo o di un gruppo di uomini litigano davanti a Giove, ma l’apparato mitologico è puramente formale. Lo stesso Olimpo ci dà l’idea di un cortile o un quartiere chiassoso e litigioso di una città della Sicilia. Ma l’opera più importante secondo i critici rimane comunque La Carestia, che parla dei tumulto che agitarono Catania nel 1798 contro i pubblici amministratori per via del caro prezzo del pane, sfociati in violenze e nel saccheggio del pane stesso. Sotto questo punto di vista, Domenico Tempio non può dirsi poeta morale ma sociale, i quanto non descrive e analizza per educare, ma per vilipendere, per coprire di vergogna e di ignominia l’uomo corrotto e vizioso. Ma è l’elemento erotico (per meglio dire, osceno), caratteristica della sua arte. Un esempio evidente, oltre a La monica dispirata, è la poesia La futtuta all’inglisa, in cui scrive: “Nici, mi vinni un nolitu
 di futtiri all'inglisa;
 già sugno infucatissimu:
 guarda chi minchia tisa!”, ma lo si trova sparso e diffuso qua e là in tutta la produzione, tranne in qualche parte (come nel Lu Veru Piaciri), quasi a completare, con la rappresentazione delle cose nascoste e segrete, il fosco quadro della società abbrutita dal vizio. Proprio il suo carattere irruente, induceva Micio Tempio a non risparmiare i vizi e i difetti di nessuno. L’occhio del pessimista lo portava a vedere ciò che di marcio c’è nella società, nei costumi domestici e in quelli degli ecclesiastici, specialmente dei frati, e perfino nei sistemi letterari. I suoi personaggi appartengono alle categorie degli uomini più abbietti: sono usurai e beoni, nobili spiantati, oziosi ruffiani e prostitute e portano i segni del vizio e il marchio della natura imperfetta, sono descritti infatti quasi sempre come erniosi, claudicanti o guerci. Tuttavia, Tempio non mancò, scrivendo, di giustificare i suoi componimenti osceni traendone la morale. Ma è facile comprendere che questa, quando non è un artificio, è più un’ironia, che un precetto etico. E allora se dal punto di vista sociale la sua arte non è sostanzialmente morale o almeno non raggiunge gli scopi morali, allora da quello letterario non può essere considerata come una parodia. A questo puto sorge naturale il dubbio che forse proprio alla poesia di Tempio si ispirò Raniero Alliata di Pietratagliata, il principe Mago, nel dipingere le gouaches pornografiche che lo hanno reso celebre. Domenico Tempio si compiace di ritrarre quelli che sono l’amore, le passioni, gli istinti umani nelle scene intime e nei caratteri del loro pervertimento e lo fa sia per destare un riso inevitabile nel lettore, sia per esporre al ridicolo i protagonisti delle sue opere e le loro gesta. Per mettere alla berlina, attraverso una sottile e tagliente ironia, comportamenti umani, secolari pregiudizi e malcelate turpitudini.

Vittorio Lorenzo Tumeo

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