Le arti marziali degli antenati messinesi: palè, pugilato e pancrazio

Le arti marziali degli antenati messinesi: palè, pugilato e pancrazio

Daniele Ferrara

Le arti marziali degli antenati messinesi: palè, pugilato e pancrazio

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sabato 16 Marzo 2019 - 08:00

Il messinese Leontisco, che vinse due volte le Olimpiadi era un campione di palè

Un altro articolo dedicato a praticanti e appassionati messinesi di arti marziali. Abbiamo parlato in queste pagine di Leontisco, il messinese che nell’antichità fu per due volte vincitore alle Olimpiadi e una alle Pitiadi; oggi parliamo di quale disciplina praticava, quale stile di combattimento era il suo: la palé, una delle tre arti marziali dei nostri antenati insieme al pugilato e al pancrazio.

Pálē è una parola che nell’antica lingua greca indica più semplicemente lo scontro disarmato, per non dire lotta, come viene usualmente indicata (e continuata oggi, come lotta greco-romana e lotta libera/lotta femminile), e deriva dal palmo della mano, poiché molte delle tecniche prevedevano l’utilizzo delle mani aperte, dunque di numerose e abili prese, a differenza del pugilato che invece richiedeva colpi con i pugni per abbattere l’avversario. Il pancrazio nacque più avanti come violento connubio di forme non originarie e ampliate di palé e pugilato.

Queste discipline nacquero dalle tecniche di combattimento usate dai soldati quando privati delle armi, poi sviluppatesi anche in senso sportivo poiché lo sport in quei tempi altro non era che l’esercizio di un’attività facente parte della vita reale che veniva resa al tempo stesso competizione, rituale e spettacolo. Per un uomo destreggiarsi nella lotta era segno di grande virilità, inoltre trionfare in questi sport avvicinava agli dei guerrieri, come Marte ed Eracle.

A livello agonistico, la palé si praticava in un’ampia area quadrata di terriccio chiamata per la sua misura pletro, ossia circa 30 x 30 metri. L’incontro iniziava con i due contendenti posti a una certa distanza l’uno dall’altro, al centro del quadrato, pronti ad affrontarsi con le prese e con la forza. Era vietato colpire, meno che meno le parti più vulnerabili come occhi e genitali, che non potevano essere oggetto nemmeno di prese. La competizione terminava a favore del vincitore quando questi aveva guadagnato tre punti: facendo finire a terra di schiena l’avversario, scagliandolo fuori dal pletro di combattimento, o ricevendone la resa di sua sponte o per costrizione. Tutto avveniva sotto l’occhio vigile di un arbitro, che valutava se le azioni erano accettabili o meno e aveva la potestà d’interrompere lo scontro qualora notasse qualche irregolarità, inoltre era armato di frusta e il suo parere era incontestabile.

Quest’esplicazione non vuole essere vana e meramente conoscitiva, poiché la palé è legata a noi a triplo filo: perché in generale i nostri progenitori la praticavano, perché sappiamo con certezza di un nostro concittadino esperto in essa e perché costui per tre volte risultò vincitore nei più prestigiosi agoni sportivi dell’antichità.

Nata per l’uso bellico, questa lotta può a pieno titolo inserirsi nell’esercizio sportivo e d’autodifesa. Non è negabile che le arti marziali giapponesi e le altre siano anch’esse belle, ma le proprie sono sempre le proprie e almeno conoscerle è d’obbligo per appassionati e praticanti; non le chiameremmo marziali se non derivasse da Marte, che è un dio nostro.

Recuperare la palé oggi, anche con il rilancio della lotta greco-romana già regolamentata, è una cosa necessaria in questi tempi in cui si cerca di rafforzare la propria identità, oltre all’essere sicura foriera di splendide opportunità per la città di Messina, con la benedizione di Leontisco il Messeno.

Daniele Ferrara

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