La ricerca dell’immortalità. A trent'anni dalla morte di Dalì

La ricerca dell’immortalità. A trent’anni dalla morte di Dalì

Tosi Siragusa

La ricerca dell’immortalità. A trent’anni dalla morte di Dalì

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lunedì 01 Ottobre 2018 - 09:02

Grande arte totale dell’irruento interprete del 900, che ha trasposto la sua esistenza in istallazioni e opere pittoriche attraverso l’immedesimazione con l’amata Gala.

David Pujol ha incontrato la direttrice del Museo Dalì, Montse Agner Teixidor e Jordì Artigas, il coordinatore delle Case Museo Dalì e da lì è originata la direzione di questo lungometraggio, che ha inaugurato il cartellone 2018 della Grande Arte al Cinema ed è stato prodotto dalla Fondazione Gala-Salvador Dalì, con distribuzione attraverso i Media Partner: Radio Capital, Sky Arte e Mymovies.it.

L’occasione dell’uscita nelle sale è stata approntata dall’imminente anniversario della scomparsa dell’artista (trent’anni a gennaio 2019) che ha costituito spunto per rievocare, lungo il corso di sessant’anni – dal 1929, anno clou al quale si può ricondurre anche il dipinto “Il gioco lugubre” – magistralmente l’uomo e il pittore Dalì, al di là del personaggio pubblico, eccentrico e altamente sopra le righe, o forse i tre aspetti potrebbero dirsi coincidenti, poiché Salvador ha saputo costruire se stesso come opera d’arte vivente. L’interrogativo che sorge spontaneo è se il ruolo dell’amata compagna di vita, la russa Gala – colei che avanza – già moglie di Paul Eluard, sia stato “solo” quello di musa-ispiratrice e di collaboratrice – promoter, o, come sembra più plausibile, se il prodotto artistico non sia invece sgorgato dalla immersiva fusione di due anime, due menti, due corpi, fattisi unica mano. Certo è che Gala ha rappresentato per Dalì l’equilibrato porto, accogliente e comodo, riuscendo a placare le sue ossessioni. Ogni opera pittorica daliniana è divenuta, proiettata, organismo vivo, mutevole, interagendo con gli spettatori. La casa di Portlligat, concepita quale insieme di cellule, la cui costruzione nel tempo, con l’aggiunta di capanni, tutti di identica dimensione, per integrazioni successive, ha avuto corrispondenza con fasi vitali essenziali nel percorso esistenziale dell’artista, costituendo ambiente amatissimo e ha accolto dalle sue finestre i colori e le asprezze di quel tratto di Catalogna: già in un originario nucleo di 22 mq – appartenuto alla folle Lidia, figura del luogo molto cara a Dalì “plasticamente paranoica” in alto grado, si è via via trasformata da nido e spazio intrauterino in studio fra gli ulivi ed è stata sempre ben frequentata e dimora abituale di fan e giornalisti e comunque sito fondamentale per la scoperta dell’artista. Figueres, luogo natio e approdo finale daliniano, è stato ed è invece sede del Museo – Teatro Dalì, creato dall’artista, divenendone suo testamento spirituale: proprio nella Torre Galatea, infatti, negli ultimi scorci esistenziali, quasi in un mistico e ascetico rigore, l’artista ha provato a carpire il mistero della vita, chiudendo il cerchio, e forse trovando il segreto dell’immortalità, da sempre agognata. Infine, terzo luogo simbolico e significante, il Castello di Pubol, ove, attraverso il dono all’amata, Dalì ha sperimentato le forme e le dimensioni dell’amor cortese, aderendo all’invito di Gala di accedervi solo attraverso espressa e formale richiesta. Parigi e New York non sono stati, però, luoghi estranei all’artista: la prima, dopo il crollo della borsa del 1929, quale città ove vivere appieno il Surrealismo, in fuga da Cadaques, ove la famiglia lo aveva respinto per quel suo radicale allontanamento dagli schemi artistici classici – si pensi a “Un Chien Andalou”, prodotto e interpretato unitamente ad un altro eccelso spagnolo, Louis Bunuel – la seconda, simbolo di resurrezione in un periodo buio e critico, a causa, prima della rivoluzione civile spagnola del 1936, e poi per lo scoppio del secondo conflitto bellico (si rammenti il cortometraggio “Destino, prodotto dalla Disney nel 1946). I conflitti familiari, che hanno trovato l’apice nel famoso sputo rivolto all’immagine materna, si sono caratterizzati anche nei frequenti scontri con la figura paterna e con l’amata sorella Anna Maria, che non avevano accettato i suoi mutamenti.

Un plauso, in conclusione, ad un’opera che ci ha consentito di penetrare nell’universo geniale e tormentato dell’artista, divenuto MITO, trascendendo la mortalità che tanto detestava ed ottenendo già in vita favori a piene mani e consensi pubblici anche da artisti quali Hitchcock – che lo ritenne il pittore maggiormente in grado di replicare il mondo del subconscio – e ringraziamenti anche al Multisala “Apollo” che, realtà cittadina ormai ampiamente consolidata, ha proiettato un’opera cinematografica di tal fatta.

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