Quando, il 6 maggio 1986, una scarpa lanciata da un boss firmò la morte di Nino D'Uva

Quando, il 6 maggio 1986, una scarpa lanciata da un boss firmò la morte di Nino D’Uva

Rosaria Brancato

Quando, il 6 maggio 1986, una scarpa lanciata da un boss firmò la morte di Nino D’Uva

lunedì 06 Maggio 2013 - 04:43

Oggi ricorre l'anniversario del penalista messinese ucciso dalla mafia durante il maxi-processo alle cosche per dare un segnale a tutti i difensori ritenuti "troppo morbidi". Alla sbarra quasi 300 imputati, dei quali, un anno dopo gran parte furono assolti. Sull'assassinio dell'avvocato Nino D'Uva si farà luce soltanto anni dopo, grazie ai racconti dei pentiti.

Sabato scorso nell’articolo sull’iniziativa del M5S per errore ho scritto il nome di Nino D’Uva invece di Francesco D’Uva, il giovane parlamentare che del noto avvocato ucciso dalla mafia è il nipote. Non ho mai sbagliato il nome di Ciccio D’Uva e non credo che le cose accadano per caso. Nino D’Uva è stato ucciso il 6 maggio 1986, oggi ricorre l’anniversario di quegli anni bui e forse non è affatto un caso se il suo nome è finito nel mio articolo. Forse era arrivato il momento di rispolverare la memoria in un periodo in cui ci sono stati in provincia troppi episodi inquietanti che hanno visti coinvolti un giornalista, due sindaci.

La sentenza di morte è stata scritta con una scarpa: dalle gabbie del maxiprocesso in corso a Messina per mafia volò uno scarpa che finì per colpire l’avvocato D’Uva. Era il segnale che un ragazzino, nascosto tra il pubblico, stava aspettando. Era il segnale che tutti gli imputati attendevano per scatenare il primo messaggio di guerra. Di lì a poco la sentenza venne eseguita, alle 19 del 6 maggio 1986. Il legale era nel suo ufficio, in via San Giacomo, stava per fare una telefonata. Era solo in quel momento ed aveva aperto il portone al killer. Forse non si è neanche accorto che mentre tentava di chiamare un collega la morte era entrata nel suo ufficio, aveva preso un cuscino dal divano, per attutire il rumore della calibro 7,65, gli era arrivata alle spalle della poltrona girevole. Poi uno sparo, uno solo,e l’avvocato Nino D’Uva, diventa con la sua morte il messaggio di terrore diretto dalle cosche a tutti gli altri. Il sicario esce, getta la pistola nel cassonetto e scappa con un complice a bordo di una Mini di colore verde. A trovare il suo corpo è la donna di servizio, rientrata per preparare la cena nell’abitazione a fianco dello studio. Vede la porta semi aperta, chiama l’avvocato, lui non risponde. Entra nell’ufficio e trova il cadavere sotto la scrivania, dove era scivolato dopo lo sparo. Nino D’Uva aveva 61 anni, era uno dei penalisti più noti di Messina, un uomo appassionato di pittura, teatro, musica, amava leggere, aggiornarsi. L’eco dello sparo si sentirà per mesi in una città che fa finta di non vedere e di non sapere, ma soprattutto arriverà fortissimo nell’aula bunker del carcere di Gazzi, dove era in corso il primo maxiprocesso alla mafia messinese. L’avvocato assassinato non è solo uno dei più noti penalisti in città, ma è anche il padre di Giuseppina D’Uva, magistrato in servizio a Palmi e che ha istruito diversi processi di mafia e ìndrangheta, ed è anche genero di Melchiorre Briguglio, magistrato a Reggio Calabria.

Al maxiprocesso peloritano gli imputati sono 283, suddivisi in 4 cosche, tra Messina e Barcellona. Tredici imputati hanno scelto D’Uva come difensore. Dietro le gabbie non c’è solo la “manovalanza” ma anche i capi, i generali ed i gregari. E’ una mafia che è cambiata nel tempo, ha stretto legami con le cosche dirimpettaie, ha iniziato ad occuparsi di droga e di estorsioni.

Alla sbarra il clan di Gaetano Costafacc’i sola”, ritenuto tra i primi ad aver stretto legami con la ‘ndrangheta sin dalla fine degli anni ’70.Poi ci sono i clan di Placido Cariolo e del boss barcellonese Carmelo Milone. Infine quella di Lorenzino Ingemi. Ma il vero “padrino”, quello che con uno sguardo manda gli ordini è Gaetano Costa, l’amico di Cutolo e l’uomo che in carcere a Reggio, giovanissimo, ha ucciso a coltellate Antonino Timpani, una delle figure di spicco della mafia messinese. E’ Costa che dal banco degli imputati lancia accuse contro il pentito Insolito, dalle cui dichiarazioni ha preso avvio l’indagine che porterà al maxiprocesso. E’ sempre facci i sola che organizza la rivolta nelle gabbie ed un giorno lancia una scarpa contro gli avvocati in aula e dice “deve finire presto”. I 283 imputati erano insoddisfatti, consideravano “troppo morbida” la linea difensiva adottata dai legali. La Sicilia della mafia era infiammata dai maxi processi, come quello di Palermo e Messina. Ogni udienza era un coro di fischi dalle gabbie e il presidente Domenico Cucchiara (che anni dopo finirà coinvolto dalle dichiarazioni di alcuni pentiti) aveva difficoltà a far placare gli animi. Nelle udienze succede di tutto, urla, strepiti, persino un imputato che è convinto di essere la reincarnazione di un papa. Il maxi nasce dal blitz della notte di San Paolino, a conclusione di mesi di dichiarazioni del pentito Insolito ai magistrati Franco Providenti e Rocco Sisci. Il processo inizia il 14 aprile, D’Uva verrà ucciso meno di un mese dopo. Prima della fine del processo tra i clan ci sarà una vera e propria mattanza, almeno otto morti, tutti ordinati dietro le sbarre. L’assassinio del penalista è l’avvertimento della mafia a tutti i difensori. In quei mesi ci saranno attentati incendiari e messaggi di vario genere. La sentenza di primo grado arriverà un anno dopo, il 3 aprile 1987: solo 65 condanne, poi 180 assoluzioni

Sul perché dell’omicidio nessuna risposta fino al 1993, grazie alle dichiarazioni del pentito Umberto Santacaterina. I mandanti dell’omicidio D’Uva erano, secondo i racconti raccolti, i boss Gaetano Costa e Mario Marchese, il killer un ragazzo che all’epoca dei fatti aveva 19 anni, Placido Calogero.

L’avvocato è stato ucciso perché tutti gli altri capissero che dovevano impegnarsi di più e meglio, in una sorta di strategia della paura che avrebbe dovuto paralizzare l’intera aula. Con il passare del tempo ulteriori conferme arrivarono anche da Reggio e coinvolgono anche un altro boss, Iamonte che aveva deciso di rivolgersi a D’Uva proprio perché noto penalista, ma la sua richiesta non era stata accolta. Il processo per la morte dell’avvocato si sposta a Catania e nel ’95 Iamonte, Calogero e l’autista complice del killer, De Domenico, vengono condannati all’ergastolo, Costa a 15 anni. Pene ridotte in appello.

In ricordo dell’avvocato D’Uva in Tribunale c’è una targa “stroncato da cieca violenza”. In pochi ricordano quegli anni bui, quella scarpa lanciata con violenza e arroganza da una gabbia per firmare la morte di un uomo. D’Uva doveva morire perché gli altri capissero. Davvero quel messaggio di terrore scritto col sangue di un uomo è lontano? La memoria serve per non abbassare mai la guardia, non dovremmo mai smettere di ricordare, perché è quando dimentichiamo che diventiamo facili prede. Per questo penso che quel mio errore sabato 4 maggio nello scrivere Nino D’Uva invece che Francesco, senza sapere che il 6 maggio ricorreva il tragico anniversario, non è un caso. Forse era solo un modo, un “segno” per costringerci a ricordare quel che non va messo nel cassetto.

Rosaria Brancato

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