Operazione Nebrodi. Il lavoro dello Stato contro la mafia tortoriciana

Operazione Nebrodi. Il lavoro dello Stato contro la mafia tortoriciana

Marco Ipsale

Operazione Nebrodi. Il lavoro dello Stato contro la mafia tortoriciana

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giovedì 16 Gennaio 2020 - 07:00

Carabinieri e Guardia di Finanza in forze per l'operazione che ha inflitto un duro colpo ai clan dei Batanesi e dei Bontempo Scavo

Procura, Guardia di Finanza, Carabinieri. Sono i protagonisti dell’operazione Nebrodi, in gran forze per sgominare l’associazione mafiosa che gestiva in modo illecito terreni e contributi dell’Agea.

E a Messina, oltre ai vertici locali, ci sono anche quelli nazionali, come Cafiero De Raho e il comandante dei Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri, Pasquale Angelosanto.

“I Batanesi e i Bontempo Scavo erano clan di alta caratura – sottolinea il generale Angelosanto -. Interloquivano con Cosa Nostra palermitana, con la mediazione della famiglia mafiosa di Mistretta, tanto che il collaboratore di giustizia Angelo Siino riporta che Santapaola e Brusca volevano che i tortoriciani diventassero interni. Un’organizzazione pericolosa, con elevato potere corruttivo nella pubblica amministrazione, coi professionisti e le imprese”.

L’agricoltura è la prima voce dell’economia nazionale, con due milioni di imprese. Ci sono fondi europei per incentivare l’attività giovanile, che in Sicilia esiste. Lo ricorda il comandante dei carabinieri per la tutela agroalimentare, Luigi Cortellessa: “E’ un’indagine senza precedenti nel settore, per la quantità di persone coinvolte e per l’estensione territoriale. Una mafia raffinata, che sa come operare e crea un danno all’economia legale e alla gente onesta”.

“C’erano tantissime piccole truffe da 10, 20 o 30mila euro – dice il comandante regionale della Guardia di Finanza, Ignazio Gibilaro – che prese singolarmente non erano degne di particolare attenzione ma che, messe a sistema, facevano emergere forti gruppi criminali. Poter contestare l’associazione mafiosa ha reso complessa e grave la posizione dei singoli indagati, che invece contavano sulle asimmetrie normative, come ad esempio le diverse competenze delle Procure, che possono cambiare a seconda della sede legale o del luogo del terreno o del momento in cui viene inoltrata la richiesta o in quello dell’accredito delle somme, che poi finivano anche all’estero. Studiamo da anni questi aspetti complessi”.

Per i clan, però, tutto è più facile grazie all’appoggio dei colletti bianchi. “Puntavano soprattutto su cinque centri di assistenza agricola sparsi sul territorio, a Messina, Catania, Cesarò, Montalbano Elicona e Barcellona – spiega il comandante provinciale della Guardia di Finanza, Gerardo Mastrodomenico -. C’era poi un notaio consapevole delle intestazioni fittizie, formando atti falsi sulla base di false donazioni, anche con timbri falsi dell’Agenzia delle Entrate”.

Le indagini non sono state facili. “Intercettazioni, analisi del territorio, foto aeree. Analizzare solo i documenti non bastava – dice il comandante del nucleo di polizia finanziaria della Guardia di Finanza di Messina, Emanuele Camerota -. Le ditte venivano create e chiuse velocemente, le autorizzazioni venivano cedute da una all’altra. Anche i beneficiari cambiavano rapidamente, le stesse particelle venivano vendute da una società all’altra”.

Per imporsi sul territorio, comunque, i clan usavano anche i metodi classici. “Estorsioni, intimidazioni, furti col metodo del cavallo di ritorno – spiega il comandante provinciale dei carabinieri, Lorenzo Sabatino -. Purtroppo registriamo una bassa propensione alla denuncia, così ci sono pure casi che sfuggono”.

I Batanesi hanno anche buon gioco ad espandersi. “Dopo le operazioni Gotha sono loro a dire che a Barcellona non è rimasto più nessuno perché sono stati arrestati tutti – ricorda il comandante dei Ros di Messina, Antonio Parasiliti -. C’è un passaggio di informazioni anche nelle carceri. La truffa è preferita rispetto alle estorsioni perché consente entrate elevate con meno rischi”.

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