Referendum / Reggio. Il “no” di Stefano Musolino: «Politica abulica, ’Severino’ indispensabile»

Referendum / Reggio. Il “no” di Stefano Musolino: «Politica abulica, ’Severino’ indispensabile»

mario meliado

Referendum / Reggio. Il “no” di Stefano Musolino: «Politica abulica, ’Severino’ indispensabile»

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domenica 05 Giugno 2022 - 08:30

Il segretario di Magistratura democratica: votare e bocciare i quesiti nel merito. Freni alle misure cautelari? Delicati reati si prevengono solo così

REGGIO CALABRIA/MESSINA – Tempostretto prova a contribuire a far luce sui cinque referendum abrogativi in materia di Giustizia su cui si andrà a votare domenica  prossima, 12 giugno.
In questo caso, l’abbiamo fatto sentendo l’avvocato Bonaventura Candido, presidente della Camera penale “P. Pisani – G. Amendolia” di Messina ed esponente dei Radicali, per le ragioni del “Sì”; e il pm Stefano Musolino della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, segretario nazionale di Magistratura democratica, per le ragioni del “No”

Il pm antimafia Musolino: quesiti da bocciare alle urne, nel merito

Sono quesiti che “ci stanno”? O sono proprio fuori dal mondo?

«Direi che la gente dovrebbe innanzitutto sapere che spreco di risorse si fa nel tentativo, sostanzialmente, di screditare e delegittimare l’intera magistratura. Finalità del tutto eterogenea, credo sia importante sottolinearlo, rispetto a quella propria, tecnica che dev’essere l’unica perseguita da un referendum abrogativo, Costituzione alla mano. Una sola postilla: sono scelte personali, ma io sono contrarissimo all’astensione per far fallire i referendum. Credo sia molto importante andare alle urne, e poi votare “no” scegliendo nel merito, non “dribblando” i quesiti referendari».

Il pm Stefano Musolino

Dicono i fautori del ‘no’: quesiti troppo tecnici. La risposta consueta è: lo sono sempre stati, i quesiti referendari…
Ma prendiamo il quesito sulle firme con cui corredare la candidatura di un magistrato come membro togato del Csm: è pane per un voto a suffragio universale, o no?

«Allora: i comizi elettorali, e dunque la presentazione di queste sottoscrizioni per ciascuna candidatura, fin qui almeno, deve avvenire 45-60 giorni prima delle elezioni. Ma, sempre col sistema vigente, per essere eletto come componente del plenum a Palazzo dei Marescialli occorrono 6-700 voti come minimo: davvero siamo convinti che un aspirante componente del Csm che non riesce a raggiungere 25 firme sia pregiudicato nelle proprie ambizioni, perché poi in grado di raggiungere 700 consensi in un bimestre?»

Un esempio iconico, lei dice: tra quanti andranno alle urne potrebbe vincere il “sì” a mani basse perché nessuno informa a dovere. In caso contrario…?

«…In caso contrario, l’elettore non si porrebbe più il problema di quale scelta operare, ma del motivo reale per cui un ‘dilemma’ del genere è finito su una scheda referendaria e capirebbe che è una ‘follia’ fare un referendum su cose del genere. Il punto è proprio che i profili di merito relativi ai cinque quesiti non vengono esplicitati».

Csm, membri “togati” e fattori distorsivi

Qualche magistrato, altro che 25 firme!, vanta una ‘potenza di fuoco’ anche mediatica formidabile. Forse c’è una distorsione sulle reali cause in grado d’eterodirigere la scelta… No?

«Certo! Siamo davanti a un quesito sballato e viziato da una sorta d’eterogenesi dei fini, più che altro. Se lo scopo di chi l’ha proposto era far pulizia delle possibili ‘interferenze correntizie’, di certo non può essere centrato con questo referendum».

‘Legge Severino’: fatta salva la petitio principii, votare al riguardo a Monfalcone non è la stessa cosa che farlo a Reggio Calabria, che ha visto un Governatore regionale dimettersi per evitare gli effetti della normativa, che ha visto sospesa un’ex candidata alla sindacatura e che tuttora vede sospesi diversi amministratori pubblici fra i quali il sindaco (ri)eletto.

«Rischio di deludere l’intervistatore… Mi spiego. Io non sarei affatto scandalizzato se venisse abrogata la parte della ‘Severino’ che prevede la sospensione o l’incandidabilità in caso di condanna in primo grado di giudizio per le gravi ipotesi di reato che, in atto, lo sanciscono. Ovviamente, ragioniamo com’è giusto in termini generali e astratti, perché in concreto Giuseppe Scopelliti, che dopo la condanna in primo grado sarebbe incappato nella decadenza da Presidente della Regione se non avesse lasciato, poi è stato condannato anche successivamente, con sentenza irrevocabile. Il punto è che la ‘Severino’ s’è resa indispensabile affinché la magistratura svolgesse quella funzione di supplenza che non le è propria, a fronte d’evidenze che dovrebbero essere autosufficienti…».

«La politica? Non vuole autoemendarsi: anzi…»

Il nodo sta dunque nell’inerzia della politica che non intende automondarsi, né prima dell’esercizio dell’azione penale né – spesso – dopo una condanna, benché non definitiva?

«E certo. Proprio l’abulia dei partiti ha determinato un rapporto conflittual-competitivo con la magistratura e col Parlamento, che ha legiferato producendo la ‘legge Severino’. Però c’è un tema che tende a essere trascurato e che, invece, dovrebbe essere “il” problema… La discussione sul quesito che abbiamo di fronte dovrebbe essere più ampia, perché in caso di vittoria del “Sì” saranno caducati gli effetti della ‘Severino’ anche verso i condannati a titolo definitivo. E così, in teoria, domani potremmo avere un condannato per 416-bis che si candida a sindaco di Reggio Calabria».

Il pm antimafia Stefano Musolino

Beh, nell’87 i Radicali vollero il superboss di Gioia Tauro Peppe Piromalli tra i candidati al Parlamento, fallendo solo per l’opposizione del Psi… Ma la ‘Severino’ non c’era ancora.

«Ma al di là di quell’antica provocazione, la schizofrenia dei quesiti referendari che abbiamo davanti si nota anche nel non voler prendere atto che alcuni temi vanno definiti dal legislatore ratione materiae, non c’è possibilità d’intervenire su una legge del genere limitandosi a interpolare un pezzo di un testo che c’è già senza mandare in crisi il sistema. Pensate a un Comune sciolto per infiltrazioni mafiose in ragione di un rapporto di parentela o affinità tra il primo cittadino e un mafioso di quel centro: be’, da domani, se passa il referendum, paradossalmente potrà essere sindaco direttamente il mafioso che ha causato lo scioglimento dell’Ente locale per la sua ‘influenza’ familiare. Ecco allora “il” problema: le norme debbono avere un senso logico, la sola caducazione del testo non ne avrà».

…certo il problema è ‘a monte’, nei soggetti politici che certe candidature borderline le accolgono. Tuttavia, molti obiettano che il garantismo “è” Costituzione; e che bisogna professare innocenza fino al terzo grado di giudizio sempre, anche sul versante politico-istituzionale. Qual è il corto circuito di questa tesi per Stefano Musolino?

«L’errore è nella valutazione costituzionale. Infatti ‘legge Severino’, anche davanti a una condanna di primo grado per certi gravi reati, mica dà per presupposto che il fatto X in capo al soggetto Y sia accertato in modo definitivo: piuttosto, l’esistenza di una condanna non definitiva per quei presunti episodi ai sensi della ‘Severino’ costituisce in sé una causa d’inadeguatezza, d’indegnità nello svolgimento della funzione che giustifica la sospensione. Un dettato legislativo costituzionalmente perfettamente legittimo, anche perché cosa dice l’articolo 54 della Carta fondamentale italiana? “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere d’adempierle con disciplina e onore”. Ecco: non c’è una traslazione della condanna di primo grado, un’equiparazione impropria a una sentenza definitiva. La ‘Severino’, piuttosto, assevera che quella condanna incarna un grave indizio in capo all’eletto che, di per sé, non gli consente più di proseguire nello svolgimento del mandato ricevuto: è una valutazione d’opportunità, quella tracciata dal legislatore. Se poi vogliamo andare ‘oltre’, il mio personale parere è che questa valutazione sia sbagliata: ma non certo in violazione della Costituzione. Questo, no. Diciamo che a mio avviso sarebbero più utili altri strumenti, in grado di riscontrare la situazione concreta: per un amministratore in primo grado potrebbe anche esserci un proscioglimento, ma un incartamento che sveli elementi assolutamente incompatibili con la prosecuzione del suo mandato ‘con disciplina e onore’. E perché no?, anche il contrario».

Ma a proposito di ‘rapporti competitivi’ politica-magistratura e distorsioni. Dica la verità: quanto ha contribuito il “caso Palamara” a “infuocare la posta” referendaria?

«Moltissimo; ma impropriamente. A rigore, l’unico dei cinque quesiti a poterne essere in qualche modo influenzato è quello sui sottoscrittori della candidatura per il Csm. Quando a proposito delle misure cautelari si propone d’eliminare il pericolo di reiterazione del reato come parametro di valutazione, io vorrei tanto che il Comitato per il Sì andasse a dirlo alle vittime di reati come lo stalking o le violenze domestiche: senza un parametro valutativo di questo tipo, davanti a condotte pur vessatorie ma non ancora violente, noi magistrati non potremmo intervenire mai. E invece è importante poterlo fare in chiave preventiva, perché spesso ci troviamo davanti a mariti o figli che a un tratto aggrediscono mortalmente mogli o genitori, con escalation improvvise che però sono tipiche di questo tipo di reati».

Va bene; e Palamara (tra l’altro, a sua volta reggino di Santa Cristina d’Aspromonte)?

«…Lì si sono incrociate varie tensioni. Il carrierismo esasperato, peraltro fomentato da norme sbagliate che nella sostanza mettono ai margini della magistratura chi non vanta ruoli direttivi: questo ha fatto sì che a un certo punto tutti volessero “diventare Presidente” di qualcosa, di una Corte, di una sezione… o procuratore, o procuratore aggiunto… E questo ci ha fatto perdere completamente di vista il reale senso del nostro lavoro, cioè dare risposte di Giustizia, ai sensi dell’articolo 107 della Costituzione, che prevede che tutti i magistrati siano soggetti soltanto alla legge. Quel carrierismo peraltro ha fatto sì che contasse sempre di più la griglia delle relazioni personali. C’è chi organizzava feste in circoli esclusivi e magari oggi ha ruoli di Governo, chi come Luca Palamara faceva perno sul suo ruolo di allenatore della squadra di calcio dei magistrati, che poi andava a giocare in tutt’Italia: diventavano fattori significativi per l’aggregazione del consenso, ma che esulavano completamente dal sistema valoriale e dalla valutazione dei vari modi in cui si può fare il magistrato. Aggiungiamoci fascicoli non utili a restituire la professionalità del singolo. E poi, una categoria che s’è autoemendata assai parzialmente e fidando solo in procedimenti disciplinari e paradisciplinari. E non solo questi cinque quesiti referendari non risolvono nulla, ma non lo fa neanche la riforma Cartabia».

Il paradosso: separare le funzioni è molto poco “garantista”

E la separazione delle funzioni requirente e giudicante?

«La separazione delle funzioni, che produce poi di fatto la separazione delle carriere, è un danno gravissimo anche per la formazione del singolo magistrato. Vorrebbe essere posta a garanzia, no? Ma in realtà proprio la separazione tra le due funzioni, per un pm, significa ad esempio non istruirlo a dovere a fare indagini anche nell’interesse dell’indagato; radicalizzarne il ruolo come per la Polizia giudiziaria, che viene valutata sulla base delle statistiche sulle misure cautelari emanate. Altro paradosso, dunque: da un lato una certa politica si lamenta delle troppe misure restrittive applicate, dall’altro però invece d’impegnarsi per ampliare al massimo la formazione giurisdizionale di chi fa il pubblico ministero, e magari prevedere l’obbligatorietà del passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante».

Certo però i referendum sulla Giustizia sono cinque “col morto”… In realtà proprio il sesto quesito, quello sulla responsabilità civile dei magistrati che la Corte costituzionale ha giudicato non ammissibile, avrebbe dato “pepe” al voto referendario del 12 giugno. E avrebbe dato il “la” a una disamina di merito più analitica e completa, non crede?

«Già. Epperò la formulazione quel sesto quesito, per come scandito dai giudici costituzionali, si poneva in radicale contrapposizione all’intero sistema. Se il magistrato è direttamente esposto alla responsabilità civile, nessuno fa più niente; il timore burocratico diventa il paradigma che orienta ogni nostro agire… Invece il diritto è sviluppo; è progressione; è precaria comprensione di dinamiche, con progressiva, crescente necessità di verifiche e riscontri. Si pensi alla coltivazione di una singola piantina di canapa indiana: reato, per lunghissimo tempo. A un certo punto, però, alcuni magistrati iniziano a interrogarsi sull’applicabilità della stessa scriminante circa la ‘modica quantità’ in relazione al possesso personale. E quindi qualche magistrato inizia a non convalidare gli arresti di Polizia giudiziaria o ad archiviare o ad assolvere, contro l’orientamento dominante, finché solo nel 2020 la Corte di Cassazione a Sezioni unite sancisce che la coltivazione di una sola piantina di marijuana non è reato. Aggiungo: altro che inefficienza, le statistiche ci dicono che siamo tra i magistrati più produttivi d’Europa… Cosa si otterrebbe, dunque, dal “sì” a questo quesito? Solamente di paralizzare tutta la magistratura, congelandone il ruolo di controllore a difesa degli interessi dello Stato e della Costituzione».

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