Il racconto, guardando lo Stretto di Messina: "La pesca dei meschini"

Il racconto, guardando lo Stretto di Messina: “La pesca dei meschini”

Il racconto, guardando lo Stretto di Messina: “La pesca dei meschini”

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sabato 21 Luglio 2018 - 08:15

Il racconto, di A.A., tra il cielo e il mare. Storie di pescatori e non solo....

Vedere attraccare la grande barca di Stellario Corvo, stracolma di pesce, era uno spettacolo straordinario. Neanche l’arrivo delle navi cariche di pesce stocco nel sale, forse perché ormai vi erano abituati, era talmente eccitante. Le feluche erano ferme, era finita la stagione della passa dei pesci spada e pure quella dei tonni e adesso la fame li attanagliava. Le giornate erano state brutte e quel mare mai esageratamente agitato come in quei giorni e nelle cui correnti sapevano ormai destreggiarsi con facilità, non gli aveva consentito di pescare. E poi avevano avuto guai grossi con la barca sfondata da qualche cornuto, forse per i debiti di gioco non saldati e insomma, la sfortuna sembrava inseguirli entrambi.

Erano cugini Cicco e Cono ed erano pure inseparabili, non litigavano mai tra loro. Con il vizio del gioco entrambi e con il desiderio di conquistare le giovani ragazze che sembravano non apprezzarli.

Erano molto diversi e non tradivano alcuna parentela. Scuro e tarchiato il primo, quasi scimmiesco e con la fronte poco ampia, le labbra pronunciate e poco avvezzo ai discorsi. Scheletrico e alto il secondo, con un fare nervoso e scattante. Più capace del cugino di dialogare con il prossimo e per questo essenziale compagno di tristi avventure e interprete dei desideri del primo.

Perdevano al gioco e guardavano con rabbia ogni successo altrui, desiderando quel riscatto che erano sicuri prima o poi sarebbe avvenuto.

Vivevano con le loro famiglie in un basso maleodorante, occupando il piccolo magazzino delle merci dove abbondava il sale e scarseggiava il pesce come il pane.

I genitori di entrambi, in preda alla disperazione dei due giovani da poco ventenni, senza speranze di matrimonio, senza lavoro e pieni di vizi inutili con i quali perdevano il poco denaro disponibile, rivolgendosi a chi avrebbe potuto aiutarli, ottennero un aiuto insperato quanto costoso dal collaboratore dell’Arcivescovo, un aitante sacerdote di buona famiglia per il quale una sorella di Cono prestava servizio ufficialmente come cameriera. La ragazza effettivamente, da quando serviva in quella casa era diventata più spigliata, istruita e sicura di sé al punto da eliminare da suo grazioso volto i peli che la caratterizzavano come le altre donne di famiglia, rivelando un aspetto sorprendentemente leggiadro.

E per intercessione della giovane nei confronti del suo padrone, che a sua volta riuscì ad intercedere nei confronti del Senatore Carrozza, barone di qualche posto impronunciabile, i due ragazzi furono chiamati a lavorare nei depositi e nei magazzini del porto. Avrebbero dovuto occuparsi di maneggiare e custodire le casse di materiale esplosivo, lavoro che in pochi erano disposti ad accettare a causa dei numerosi piccoli incidenti che erano costati nel tempo, occhi, dita, intere braccia e qualche vita.

Dopo tre giorni, dopo tre casse cascate dalle mani, a causa delle lamentele e del terrore degli altri lavoratori e del caposquadra, a Cicco, fu pagata la settimana intera ma il ragazzo fu licenziato.

Cono restò solo, ma era ordinato e schematico e non ebbe problemi a continuare. La sera passava da casa e dopo la scarsa cena, dopo aver lasciato settimanalmente parte del suo guadagno, andava fuori trovando ad aspettarlo il cugino. Fumavano erbe avvolte nella carta di giornale, bevevano vino annacquato e perdevano alle carte e ai dadi.

A volte, prima di tornare a casa, osservavano lo scarico del pesce da parte della famiglia Corvo. Si diceva usassero le bombe al carburo e il loro carico era sempre abbondante. Da ottanta a cento cassette di pesce a sera, a giorni alterni.

I ragazzi della famiglia Corvo erano conosciuti e invidiati, ammirati e desiderati dalle donne, e il loro patrimonio familiare aumentava.

Stellario, il più grande dei figli, loro coetaneo, aveva già allestito una barca tutta sua. Era una imbarcazione grande e a maggio la attrezzava per la pesca del pesce spada. Scagliava l’arpione con maestria unica e non sbagliava un solo colpo. Alle sei del mattino dei giorni dispari, sbarcavano il loro carico e i commercianti li aspettavano festanti. La città viveva un periodo di fertilità economica e sociale e loro sapevano approfittarne come tante altre famiglie abili nel commercio, nella produzione e nei rapporti.

Ma si sa, in una società, per quanto sana e rispettosa dei principi di uguaglianza, esistono sempre i deboli e i forti, i poveri e i ricchi, Cicco, Cono e Stellario. E se i secondi a volte provano pena per i primi, questi provano sempre invidia per chi giudicano ingiustamente detentore di ciò che – ritengono – toccherebbe a loro.

Cicco e Cono, a Stellario, lo avrebbero volentieri visto annegare o sparire mangiato dalle spatole e dagli altri pesci di fondo, ma non avrebbero avuto mai il coraggio di affrontarlo né di fare del male. Anche loro in fondo oltre alla invidia non avevano malizia nella loro inettitudine.

La sfortuna però si sa, come un cane di strada insegue gli straccioni, si accanisce con i più impreparati e Cicco e Cono, che continuava almeno a guadagnare qualche spicciolo, si trovarono in pochi giorni, uno orfano di padre e l’altro con il genitore paralizzato per un evento che il medico aveva definito “colpo apoplettico” e che Cicco aveva riportato come un “Polpopoclettico”.

I due avevano soltanto sorelle, e così almeno erano diventati proprietari della barca di famiglia, pur intendendosi di mare piuttosto poco, a causa del fatto che i due genitori, fratelli fra essi, vedendo la goffaggine di Cono e l’incapacità di Cicco per il lavoro di pescatore, non li avevano istruiti al mestiere, preferendo arrangiarsi da soli o con un aiutante a cottimo.

Eppure entrambi i ragazzi non se ne rendevano conto, ritenendo nei loro discorsi di essere abili quanto il capitano Achab con le balene e dispensando consigli a chi riparava le reti, a chi preparava le nasse e a tutti coloro che volgevano lo sguardo verso il mare , bastava che avessero una canna da pesca nelle mani.

Così una sera Cono propose a Cicco di mettere in acqua la barca per andare a pescare qualcosa. Cicco abbassò il capo in segno di assenso e dopo aver preparato disordinatamente il materiale, remando con la sua forza tarchiata, presero il largo, poco a dire il vero, pensando di andare a cercare calamari con le lenze alla luce della lampada ad acetilene.

Arrivati alla meta che sembrò loro adatta per la presenza di altre imbarcazioni che li avevano preceduti, si lasciarono dolcemente trasportare dalla debole corrente e Cono provò ad accendere la lampada per preparare le lenze e per attrarre le prede.

Cicco però non aveva caricato di acetilene la lampada perché non aveva soldi ma non lo aveva comunicato. Cono, consapevole della idiozia del cugino, non reagì, prese atto della cosa, afferrò i remi e iniziò a dirigersi nuovamente verso la spiaggia. Risalirono la barca sulla spiaggia, tirando la corda con la forza dei loro vent’anni, senza parlare e decisero che ci avrebbero riprovato il giorno successivo.

Le loro battute di pesca furono avvilenti, tra lenze aggrovigliate, reti strappate, cordini spezzati, galleggianti persi alla deriva, nodi che si sgliogleivano come corde che scorrono nel grasso, il pescato non riusciva a ripagarli della fatica, mentre vedevano la barca a motore di Stellario allontanarsi dietro la punta di Capo Faro e tornare puntualmente piena di pesce.

Si diceva usassero le bombe e si parlava di come le preparassero e quanto efficaci fossero. Ed effettivamente Cono più di una volta, aveva visti il padre di Stellario intento a caricare su un piccolo carro casse prelevate al magazzino. Volle capire di cosa si trattava e lesse sull’involucro di legno, sotto la scritta “Materiale Pericoloso” l’indicazione che si trattava di Carburo di Calcio, lo stesso che si usava per la lampada ad acetilene.

Chiese a qualche compagno di lavoro e si convinse che in realtà con il carburo, i Corvo costruivano le bombe per pescare.

Un compagno di lavoro, uomo maturo e sprezzante del pericolo, illustrò, disegnando con la punta di un ramo sulla sabbia, durante la pausa di mezzogiorno, come si doveva procedere per la preparazione delle bombe da pesca. La bomba a carburo spiegò, consisteva in un contenitore di latta, zavorrato con un po' di ghiaia in modo che affondasse rapidamente, con dentro un pezzo di carburo non più pesante di 50 grammi. Si doveva far entrare un po’ d’acqua, giusto quanto basta per vederlo "sfrigolare" e liberare il gas per reazione chimica, e con un gesto tanto rapido quanto preciso, il recipiente doveva essere tappato ermeticamente e gettato velocemente in mare. L'aumento della pressione interna a quel punto avrebbe provocato in poco tempo l'esplosione. A causa appunto della esplosione, il brusco spostamento d'acqua uccideva i pesci, o li stordiva facendoli salire a galla con l'inconfondibile ventre all'aria. Con il coppo bastava raccogliere i pesci prima che delfini e pescecani attratti dal botto, venissero a banchettare.

Ovviamente Cono, che aveva ascoltato le spiegazioni con sguardo rapito, cominciò a sognare una nuova avventura, raccontò il tutto a Cicco che annuì con la testa e decisero di intraprendere il mestiere di bombaroli.

Qualche giorno dopo, Cono iniziò ad aprire le casse di carburo di calcio, prenderne qualche pezzo conservandolo in una sacca di tessuto spesso, e a richiuderle senza che nessuno potesse accorgersene.

Dopo qualche mese aveva già pesato circa 100 chili di Carburo di calcio a pezzi che aveva conservato in una vecchia e asciuttissima cassa di legno dentro il suo magazzino.

Finché un giorno decisero di sperimentare l’insegnamento del vecchio collega, portando con loro tre piccole botti di legno con anelli di ferro dentro le quale introdussero circa 50 grammi di Carburo di calcio per ciascuna, conservando al sicuro altri pezzi di esplosivo.

Cono sudava per la paura e l’emozione, Cicco remava allontanandosi dalla costa e dalla altre barche, destreggiandosi nella corrente grazie al fatto che la sua intelligenza meccanica gli consentiva di capire il movimento delle acque, sentendolo attraverso i remi e sfruttandolo al meglio.

Giunsero finalmente dove nessuno potesse vederli e iniziarono l’esperimento.

Con le mani tremanti e un secchio di latta legato ad un cordino, Cono raccolse l’acqua di mare, respirò profondamente e versò il liquido nella botte. Non appena l’acqua iniziò ad entrare Cicco spinse un tappo di sughero nel foro, afferrò la botte e la gettò in acqua. Ovviamente la botte non andò a fondo ma restò in orizzontale a galla, dalle doghe iniziarono a uscire piccole bolle con una forte pressione fino a quando il tappo di sughero fu sparato ad un paio di metri e la botte sembrò essere immersa in una padella di olio caldo, allontanandosi alla deriva.

Si resero conto di non averla appesantita per mandarla a fondo e ci riprovarono con la seconda attaccando una pesante pietra all’anello della botte. L’operazione di carico fu ripetuta e dopo pochi secondi, la botte che era scesa di circa tre metri seguendo il peso, risalì in superficie sfrigolando da ogni fessura e sparando il tappo per poi ridiscendere lasciando una scia bianca di bolle gassose al sapore di acetilene.

La terza botte fu appesantita, fu raddoppiato il carico di carburo di calcio e produsse lo stesso effetto della seconda aumentano la parabola discendente del tappo sparato e la quantità di gas sprigionato dalla reazione chimica, dopo un salto di un metro circa fuori dall’acqua.

L’esperimento si era concluso almeno con la consapevolezza da parte di Cono che fosse necessario utilizzare una botte metallica con una chiusura a vite che non consentisse al tappo di saltar via.

Dopo due giorni, al primo tentativo accadde un piccolo prodigio: una piccola scatola di latta trovata per caso tra i rifiuti fu chiusa mentre cominciava la reazione chimica tra il pezzo di carburo e l’acqua appena versata. Le tre pietre con cui l’avevano appesantita all’interno la spinsero verso il fondo dopo che l’ebbero buttata in acqua ad una distanza di un paio di metri dalla barca e meno di dieci secondi dopo una colonna d’acqua di alzò accanto a loro con un esplosione ovattata. Gli spruzzi d’acqua prima più grandi e poi composti da gocce leggere li colpirono, ma la soddisfazione non fece loro rendere conto del freddo. L’adrenalina li caricava e la vista di alcuni pesci che apparivano a galla dopo meno di un minuto li esaltò per la mezz’ora successiva, mentre raccoglievano le loro prede con la spina spezzata o stordite dal colpo per poi riprendere vita dibattendosi, quando venivano depositati nelle cassette a bordo della imbarcazione.

Il pescato non fu abbondante, ma la soddisfazione tanta, soprattutto quando sbarcarono il pesce dopo avere bagnato le reti per far finta di averle utilizzate.

Nei giorni successivi si procurarono ogni sorta di latta o contenitore di metallo con chiusura ermetica potesse essere utile alla loro nuova attività, spendendo il guadagno in vino e giochi, convincendosi che la fortuna avesse girato in loro favore anche grazie ai giocatori di carte che frequentavano, che vedendoli con qualche soldo in più del solito, avevano deciso di farli vincere in modo da invogliarli successivamente a scommesse più alte.

Erano i primi giorni di ottobre e altre sei volte usarono il carburo di calcio per pescare. Una sera, cadde del cibo in acqua e videro avvicinarsi dei pesci a banchettare con quei resti. Immediatamente scaricarono tutto il loro pane disponibile in acqua con alcune sarde salate a pezzi. I pesci, pasturati con quella abbondanza si avvicinarono, e la bomba, stavolta con circa cento grammi di componente consentì loro un bottino di trenta cassette di pesce. Erano riusciti persino ad allontanarsi di una decina di metri dall’esplosione che, forse per il peso delle zavorre era avvenuta ad una notevole profondità. Quando avevano quasi finito di raccogliere i pesci, videro affiorare qualcosa di molto grosso. Si avvicinarono e videro il ventre chiaro di una grossa cernia di fondo. Il pesce era davvero enorme e boccheggiava ferito. Lo issarono a bordo con molta difficoltà e rientrarono in porto contenti e convinti che sarebbero diventati famosi su entrambe le sponde di quel mare.

I soldi che ottennero furono un po’ meno di ciò che aspettavano, ma riuscirono a comprarsi una camicia nuova per ciascuno, dare qualche soldo in famiglia e bere e giocare il resto, continuando a vincere con la complicità degli avversari.

Andarono avanti così per due settimane, uccisero un delfino che fu attaccato subito dai pescecani in quanto sventrato e sanguinante per essersi avvicinato incuriosito alla bomba che scendeva a picco verso il fondo, ma furono soddisfatti per la tecnica della pasturazione che attirava i pesci.

Poi la brutta stagione si accanì su quel mare come poche volte aveva fatto e per molti giorni non fu possibile prendere il mare, quantomeno alle imbarcazioni piccole come la loro e senza motore. Cicco e Cono si dedicarono con più convinzione al gioco d’azzardo, cadendo nella trappola tesa dai loro avversari. Persero tutto ciò che avevano guadagnato e anche di più indebitandosi, ma pensando che il mare si sarebbe calmato immaginarono di fare esplodere tante bombe. Un giorno aprirono la cassa con il carburo che Cono aveva continuato a rubare e stimarono di avere ancora materiale per più di cento esplosioni, ma forse anche duecento. Poi distribuirono il materiale in alcuni bidoni di ferro, una cinquantina di chili di carburo in ognuno di essi e per prudenza non li tapparono, coprendoli solo con un coperchio di legno appena poggiato. Avrebbero peraltro potuto utilizzare i fusti metallici per il trasporto in barca in modo sicuro.

Il tempo non migliorava, i soldi erano finiti e i due cugini avevano tanto tempo per parlare, quantomeno Cono, perché Cicco assentiva e obbediva.

Vedevano Stellario arrivare al porto con la grande barca a motore, scaricare il suo pesce, far finta di scaricare le reti – di questo erano convinti, che si trattasse di un diversivo per non far capire che usavano le bombe – poi si sfibravano il cuore vedendo arrivare in porto anche l’altra barca dei Corvo e covavano la loro invidia.

Finché Cono sentì Cicco biascicare qualcosa indicando la barca grande a motore e comprese che suo cugino aveva avuto un’idea geniale. Dovevano anche loro comprare una barca a motore.

Occorreva una pesca eccezionale e adesso era il periodo giusto. Poche barche uscivano con quel tempo. La pesca per lo più era ferma, occorreva attendere una giornata di cielo sereno e poca corrente, andare al largo di fronte Scilla dove il mare era molto profondo e pasturare abbondantemente con le sarde salate. Poi gettare la più grande e pesante bomba mai costruita, aspettare qualche minuto e raccogliere il pesce. Avrebbero fatto come San Pietro, come la storia che il prete aveva raccontato in chiesa. La barca sarebbe dovuta essere piena di pesce quasi fino ad affondare. Lo avrebbero raccontato per mesi.

Finalmente una mattina di freddo intenso e cielo limpido, senza vento e senza nuvole, annunciò loro che sarebbe stata la sera giusta. Scelsero uno dei sette bidoni in cui erano conservati i pezzi di carburo e lo trasportarono fino alla barca. La sera prima di salpare lo riempirono di pietre asciutte fino a metà posizionandolo sul bordo dell’imbarcazione e bilanciandolo con altre pietre dall’altro lato dello scafo.

Riempirono la barca di ceste, cassette e contenitori di ogni tipo. Portarono un paio di nasse piene di sarde salate da gettare nel fondo per attirare i pesci prima di innescare la bomba e si misero ai remi. Una fatica che sembrò infinita nonostante la corrente risalente, che sarebbe stata calante al momento del rientro alle prime luci dell’alba e li avrebbe aiutati a spingere la barca piena di pesci.

Ci volle un bel po’ di tempo per arrivare, quasi quattro ore a vogare che erano riuscite a far dimenticare il freddo gelido in quella notte silenziosa. La lampada era pronta per essere accesa e illuminare i pesci che sarebbero affiorati. I retini anch’essi pronti per il recupero e la bomba sul bordo della barca per essere spinta giù e sprofondare.

Mentre Cono spingeva la bomba, che fra involucro, zavorre e carburo pesava più di cento chili, Cicco dall’altro lato avrebbe dovuto nello stesso istante spingere giù il contrappeso, altrettanto pesante, per non sbilanciare l’imbarcazione. La corrente si era fermata, aveva dato tregua, il momento era giunto, occorreva iniziare prima che la corrente calante portasse indietro l’imbarcazione. Erano al largo di Scilla, accesero la lampada ad acetilene a prua e iniziarono a gettare giù le nasse, poi attesero qualche minuto. Le corde lunghissime a cui erano attaccate, iniziarono a vibrare, segno che le nasse piene di sarde erano state attaccate dai pesci anche grossi. Decisero che il momento era arrivato. Cono aprì il coperchio del pesante fusto di metallo contò fino a tre, Cicco buttò dentro un secchio d’acqua, Cono chiuse in fretta il coperchio avvitandolo e con la spalla spinse oltre il bordo la bomba, mentre Cicco dall’altro lato in assoluta contemporaneità scaricava in mare i contrappesi. La barca non si mosse e dopo dieci secondi non ci fu come al solito l’esplosione.

Forse avevano messo poca acqua rispetto al volume del bidone, forse la pressione dell’acqua del mare in profondità non consentiva al carburo di esplodere, forse si era deteriorato l’esplosivo. Non si udì nulla, solo il rumore leggero del mare calmo. Si vedevano le luci della costa da entrambi i lati. Delusi, dopo un paio di minuti, i ragazzi in silenzio erano rassegnati, videro una nave militare passare nello stretto e i traghetti a vapore staccarsi dalla costa per attraversarlo. Cono si domandò come avrebbero fatto a tirare avanti. Senza parlare si misero a recuperare le nasse, una per lato. Mentre tiravano le corde, erano passati circa cinque minuti dal lancio in acqua della bomba, una vibrazione cominciò ad attraversarli nel corpo, come un fantasma. Il cuore sussultò prima che la barca si alzasse su un’onda enorme per poi riaccompagnarli giù in un crollo ordinato. Poi di nuovo per quattro, cinque, dieci volte. Poi si calmò, piano. I ragazzi terrorizzati, rendendosi conto della enormità dell’esplosione, aggrappati ai due lati opposti dell’imbarcazione avevano resistito senza finire in acqua. Poi Cono, ripresosi dopo una decina di minuti riuscì a riaccendere la lampada ad acetilene ed esultò vedendo affiorare pesci morti a decine. Si voltò sorridente verso la costa e vide le luci della città spegnersi all’unisono e improvvisamente. Arrivò loro un boato sopito e lungo, la barca si mosse velocissima nella corrente piatta come nelle rapide di un torrente in piena. Anche dall’altro lato del mare, in Calabria si spensero le luci. Si resero conto di essersi avvicinati moltissimo alla costa vicino Capo Peloro senza capire come fosse successo. Non riuscivano più a vedere pesci morti affiorare, ma legna di ogni tipo, alghe, detriti, poi un corpo di donna. La corrente calante li spingeva veloce verso Messina ma era tutto diverso, non si vedevano più le forme della città, i palazzi e il porto. La piccola imbarcazione si muoveva urtando detriti galleggianti e persone urlanti che cercavano di aggrapparsi a tutto ciò che poteva tenerli a galla. Recuperarono tre persone vive dall’acqua e si domandarono come avessero potuto in così breve tempo essere tornati indietro dopo avere remato all’andata per quasi quattro ore.

Erano circa le 6,30 del mattino del 28 dicembre 1908, erano fermi su un molo che non esisteva più, il freddo e la morte disordinatamente distribuita ovunque intorno ad essi, Cono guardò negli occhi Cicco e comprese che questi annuendo gli domandava, circa un’ora dopo aver gettato in mare la bomba, “ma cosa abbiamo combinato?”

1908

Tre giorni dopo il Natale, un sisma del decimo grado della scala Mercalli, con epicentro nello stretto di Scilla e Cariddi, distrusse la città siciliana e gran parte di Reggio Calabria. I morti furono quasi 100mila e altrettanti furono gli sfollati.

All’alba del 28 dicembre 1908, in soli 37 secondi, si scatenò una delle più grandi catastrofi naturali della storia. Alle 5.21, un terremoto di intensità 7.1 della scala Richter, con epicentro nello stretto di Messina, distrusse la città siciliana e gran parte di Reggio Calabria. Il sisma, secondo le stime dell’epoca, uccise tra le 80 e le 100mila persone sulle due coste dello stretto e causò circa 100mila sfollati. Un’emergenza senza precedenti che mobilitò per la prima volta una rete di solidarietà nazionale e internazionale che si affiancò al governo nell’opera di soccorso e ricostruzione. Il terremoto del 1908 rappresenta la più grave catastrofe naturale italiana per numero di vittime e per intensità sismica.

L’epicentro del sisma fu molto esteso e causò almeno tre onde di maremoto che colpirono la costa siciliana e quella calabrese. Su quest’ultimo fronte il mare raggiunse, in alcuni punti, i 10 metri d’altezza sommergendo del tutto il villaggio di Lazzaro, in provincia di Reggio. L’acqua non risparmiò nemmeno Messina, dove onde tra i due e i tre metri spazzarono via molti edifici e, più a Sud, gran parte del tratto di costa tra Giampilieri e Giardini Naxos venne fortemente colpito dal maremoto.

A.A.

Un commento

  1. Bella e struggente.

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