Animali da bar. Free Tibet

Animali da bar. Free Tibet

Domenico Colosi

Animali da bar. Free Tibet

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sabato 22 Aprile 2017 - 09:15

Grandi temi, tragedie dell’infanzia e vitelloni post-ideologici nello spettacolo proposto al Teatro Vittorio Emanuele dalla Carrozzeria Orfeo

Anche le condizioni geopolitiche o la lotta dei monaci tibetani contro il regime cinese possono convergere nelle tradizionali discussioni da bar, discorsi lasciati mille volte interrotti con altri distratti avventori, poi ripresi quasi casualmente, spia del carattere di un uomo e dell’uso spesso molesto del proprio tempo libero. Il vegano che mangia solo mele, lo scrittore frustrato, la badante-barista che capitalizza il proprio utero, il ladruncolo bipolare segnato dalle tragedie dell’infanzia, il capitalista in fieri, billionaire in potenza: semplici vitelloni, moderni prodotti della società post-ideologica, presenze che provano ad infrangere il soffitto di vetro dell’anonimato.

Tra slogan, turpiloquio, gratuita generosità e un rigido sistema interno di pesi e contrappesi, gli Animali da bar della Carrozzeria Orfeo propongono al Teatro Vittorio Emanuele una parabola bukowskiana perennemente sospesa su una torbida allegria, beffarda canzonatura dei temi all’ordine del giorno in chiave cinica e materialista. Nei dialoghi serrati dei cinque personaggi in scena (Beatrice Schiros, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Pier Luigi Pasino, Paolo Li Volsi) un campionario flaubertiano delle banalità del terzo millennio, una corsa che si scontra spesso con la freddezza di un pubblico generazionalmente distante da certi tic linguistici, ripetizioni scurrili, luoghi comuni da bar di periferia. Questa Recherche politicamente scorretta, in cui la tragedia dei monaci tibetani equivale alla cremazione di un pappagallo, prova ad affrancarsi da un certo americanismo di fondo con toni che via via si avvicinano alla più recente ​produzione di Salvatores: amici nonostante tutto, nella diversità il motivo per la battuta salace, l’humour nero, la violenza verbale. Lodate le prove dei cinque attori protagonisti (cui bisogna aggiungere la tragica voce fuori campo, quasi da un ideale oltretomba, di Alessandro Haber), resta tuttavia qualche perplessità per la drammaturgia onnicomprensiva firmata da Gabriele Di Luca, risolta probabilmente, date le premesse, in modo semplicistico e sbrigativo.

Una pioggia di influenze e citazioni si riversa in uno spettacolo che vive nel tradimento del senso della misura: un blob utilizzato per dipingere il ritratto di una generazione di illusi, vittime di sogni troppo piccoli per regalare un senso ad un’esistenza. Un circo del minimalismo, proprio sotto casa.

Domenico Colosi

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