Moby Dick ovvero la metafora della vita

Moby Dick ovvero la metafora della vita

Gigi Giacobbe

Moby Dick ovvero la metafora della vita

domenica 10 Febbraio 2013 - 18:19

La Balena bianca che ognuno di noi vorrebbe arpionare

Moby Dick è il nome d’una mitica balena bianca da cui Herman Melville ha tratto il suo capolavoro, di sicuro uno dei più importanti della letteratura marinara, in cui trova un posto di riguardo Joseph Conrad. Come ricorderanno i cultori della materia, il romanzo, tradotto da Cesare Pavese, ha come protagonista il giovane Ishmael che è nello stesso tempo narratore e testimone di una spedizione di caccia sulla baleniera “Perquod” capitanata dal capitano Achab, che ha giurato di vendicarsi di quel mostro bianco che in un viaggio precedente gli ha mozzato di netto una gamba. Il Moby Dick transitato dal Teatro Savio, in quella stagione denominata dal suo direttore artistico Gianfranco Quero “In direzione contraria e ostinata, è tutto sintetizzato in 60 minuti grazie ad una esaustiva riduzione e un’accurata regia di Antonello Antonante, per conto del Teatro dell’Acquario di Cosenza, e grazie pure a Maurizio Stammati che dà vita a tanti personaggi che hanno intrapreso un viaggio senza ritorno, dei quali alla fine l’unico che scamperà alla morte sarà proprio Ishmael che utilizzerà la bara dell’amico indiano Queequeg come imbarcazione di fortuna. Se Vittorio Gassman una ventina d’anni fa al Teatro Biondo di Palermo, su un impianto scenico di Renzo Piano, ne aveva fatto uno spettacolo gagliardo, ricco di metafore attorno all’uomo che non può fermarsi di fronte alle avversità della vita, tant’è che l’aveva titolato “Ulisse e la Balena bianca” e Antonio Latella sei anni fa al Teatro Argentina di Roma, con Giorgio Albertazzi nei panni di Achab, ne aveva tratto uno spettacolo in bianco e nero, denso di riferimenti all’ “eterna nemica”, qui Antonante (con le scene di Dora Ricca, audio e luci di Geppino Canonico, le immagini di Angelo Gallo), privilegia il “cuntu”, la narrazione per voce di Stammati che trasforma lentamente la scena in una nave con tanto di vela bianca, pali , paletti, sartie e gomene che ondeggiano e danzano al suono degli ululati d’una tempesta, amplificata dai suoni d’una tammora strisciata, accarezzata e battuta dallo stesso Stammati, mentre su quel bianco lenzuolo scorrono le immagini del noto film con Gregory Peck nei panni del capitano Achab. Il Moby Dick è una metafora della vita. Somiglia molto ad una partita di baseball che si gioca in nove innings. Chi non conosce bene le regole del gioco gli sembra che non succeda niente sul campo. Poi quando sulla montagnetta di terra rossa il pitcher lancia la palla e viene colpita dal battitore che ha dietro il catcher e l’arbitro con corazza, tutto si vivacizza e prende vita, allo stesso modo come quando Queequeg lancia il suo arpione sul dorso d’una balena e i fiotti di sangue arrossano il mare tutt’intorno e la corda si tende tra il dorso del mammifero e la lancia della baleniera che prende a correre sul mare salato. Come è noto l’inseguimento a Moby Dick si protrae sui mari di tre quarti del globo. Il clima snervante dell’attesa offre lo spunto per lunghe riflessioni filosofiche e il bianco di quell’animale diventa metafora di tante realtà che trascendono la comprensione umana. Queequeg, l’unico vero amico di Ishmael, morirà prima che si concluda la storia e la vera caccia occupa solo gli ultimi capitoli del romanzo, quando avvistata e arpionata la balena bianca, costei trascinerà in una folle corsa non solo la barca inseguitrice, ma annienterà pure la nave con tutto il suo equipaggio e trascinando negli abissi lo stesso Achab, quasi crocifisso sul suo dorso dalle corde degli arpioni. Dispiace per uno spettacolo come questo vedere la sala del Savio non piena in tutti i suoi posti, anche perché ormai il biglietto d’ingresso costa quasi come quello d’un qualsiasi cinema. Fortunatamente erano tanti i giovani che alla fine hanno applaudito calorosamente.- Gigi Giacobbe

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