Che terribili questi fratelli Karamazov!

Che terribili questi fratelli Karamazov!

Gigi Giacobbe

Che terribili questi fratelli Karamazov!

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venerdì 15 Febbraio 2013 - 10:59

Lenta e con pochi espedienti la regia di Guido De Monticelli. Alla fine del primo tempo mezza sala abbandona il Vittorio Emanuele

I fratelli Karamazov di Dostoevskij, un romanzo grosso come un vocabolario, diventò popolare in Italia nel 1969 quando Sandro Bolchi realizzò uno sceneggiato televisivo in bianco e nero di ben 7 puntate nel programma nazionale, al tempo in cui esistevano solo due canali. Molti ancora ricordano i volti dei protagonisti d’allora. C’era Corrado Pani nei panni del passionale Dmitrij, innamorato della bella Grùšen’ka di Lea Massarii. Umberto Orsini era un raffinato e glaciale Ivan, Carlo Simoni interpretava il ruolo del giovane e puro Alëša, Antonio Salines era il figlio illegittimo Smerdjakòv, nonché servo di Fedor Pavlovič (Salvo Randone), padre dei quattro fratelli Karamazov. Una storia certamente ardua da mettere in scena tutta d’un fiato, in poco più di tre ore, come ha fatto adesso il regista Guido De Monticelli al Vittorio Emanuele (con repliche sino a domenica pomeriggio), autore pure d’una co-drammaturgia insieme a Roberta Arcelloni, per conto del Teatro Stabile della Sardegna e Teatro Metastasio Stabile della Toscana. Sulla scena di Lorenzo Banci e Federico Biancalani, con quinte tappezzate di assi lignei di varie altezze, quasi una sagrestia d’una chiesa russa, da cui, a guisa d’una lama di coltello, si dispiega uno stretto tavolo allungabile da diventare ora una bara, ora un divano e certamente un luogo conviviale, si svolgono gli avvenimenti, della famiglia Karamazov. Avvenimenti che si tingono di giallo, forse per l’odio che per vari motivi i quattro nutrono nei confronti del padre Fedor (Mauro Malinverno), ricco proprietario terriero, uomo volgare e dissoluto, capace soltanto di volgere a suo vantaggio femmine e avvenimenti. Dmitrij (Fabio Mascagni), figlio di primo letto, subisce i primi traumi sin da piccolo, quando la madre Adelaide lo abbandona unitamente al marito, sposato più per potersi liberare da una famiglia dispotica che per vero amore. Dmitrij poi un carattere irruento odierà il padre non solo perché poco generoso nei suoi confronti ma anche perché gli insedia una donna che ha ammaliato entrambi, ovvero la “bellezza russa” Grusen’ka ( Valentina Banci) che Dmitrij la preferisce alla fidanzata Katerina Ivanova ( Elisa Cecilia Langone) in precedenza aiutata economicamente e poi tradita. Gli avvenimenti che seguiranno vedranno Dmitrij condannato ai lavori forzati, accusato ingiustamente d’aver ucciso il padre. Delitto, come si saprà, compiuto da Smerdjakov ( Luigi Tontoranelli) il 4° Karamazov, figlio illegittimo, nato dall’unione del padre Fedor con una demente, vissuto come servo in casa sua, coinvolto come mezzano nella conquista di Grusen’ka tra il padre e Dmitrij, certamente un essere dalla personalità disturbata, per giunta pure epilettico che sfrutta la malattia per farsi assolvere dell’omicidio del padre e che finirà i suoi giorni impiccandosi. Ci sono poi Ivan ( Corrado Giannetti) e Alëša (Francesco Borchi), figli di secondo letto avuti da tale Sofia Ivanovna, soprannominata l’”urlona” per i suoi isterismi, donna dolce e bella che soffrendo enormemente per avere accanto un uomo rozzo e insensibile, s’ammalerà e morirà ancora in giovane età. Ivan è introverso, intelligente, colto, alla ricerca sempre di qualcosa da fare. Alëša è diverso dai suoi fratelli, forse la stessa anima di Dostoevskij, non conosce la menzogna, si esprime come mosso da una volontà divina, sceglie di chiudersi nel monastero di padre Zosima ( Paolo Meloni), sarà tentato dalla carne di Grusen’ka e dalla giovane Lise (Silvia Piovan) che si muove su un girello a rotelle in lungo e in largo del palcoscenico, ma lui è tutto dedito alla ricerca della verità nella fede, in nome della quale è disposto a sacrificare ogni cosa per sfuggire le umane cattiverie. Non ci sono sulla scena i tanti bambini così presenti nel romanzo e opportunamente De Monticelli ha tagliato il capitolo riguardante “La leggenda del Grande Inquisitore” (già di per sé un atto unico) in cui s’immagina che Cristo torni tra gli uomini e un inquisitore spagnolo lo giudichi e lo condanni, considerando gli uomini troppo deboli e meschini per vivere secondo i suoi comandamenti. Dodici attori, accanto ai già citati anche Cesare Saliu, Daniel Dwerryhouse, Mariagrazia Sughi, a dare vita a questo affresco di fine ‘800 o a questa “orchestrazione polifonica” – come suggerisce il filosofo, storico e critico letterario russo Michail Michajlovič Bachtin- che mette a nudo e dispiega una pluralità di concezioni etiche, filosofiche, sociali e politiche. I costumi erano di Zaira De Vincentiis, le musiche di Mario Borciani, il disegno luci di Loïc Francois Hamelin. Spettacolo certamente non facile da seguire, anche per le “lentezze” di alcune scene, che avrebbero meritato il sostegno di alcuni marchingegni, come è dato da vedere in alcuni spettacoli di registi russi come Dodin, Vassiliev e altri, ma ugualmente e lungamente applaudito da quella metà di spettatori che ha preferito restare in teatro sino alla fine, salutando l’altra metà che di corsa è tornata a casa per vedere in TV gli ultimi scampoli della partita Juventus-Celtic o la seconda parte del Festival di Sanremo. – Gigi Giacobbe

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