Tindari. Alessandro Machìa firma la regia del nuovo "Oreste" di Euripide

Tindari. Alessandro Machìa firma la regia del nuovo “Oreste” di Euripide

Redazionale

Tindari. Alessandro Machìa firma la regia del nuovo “Oreste” di Euripide

venerdì 29 Agosto 2025 - 09:00

Appuntamento il 30 agosto

Rappresentato per la prima volta nel 408 a.C. in un’Atene logorata dalla guerra e ormai vicina alla sconfitta definitiva, l’Oreste di Euripide è la libera e corrosiva rilettura di uno dei miti più rappresentati nel teatro tragico. Oreste, braccato dalle Erinni e preda dei rimorsi per il matricidio commesso, viene condannato a morte dall’assemblea degli Argivi. Abbandonato al suo destino dal dio Apollo – che l’aveva spinto al delitto – e dal pavido zio Menelao, che ritorna vanesio e trionfatore fingendosi estraneo a ogni responsabilità; perseguitato dalle Erinni e in preda al deliquio, in uno stato di allucinazione e di profonda prostrazione psichica, Oreste medita una sanguinaria vendetta su Elena e Menelao – forse l’unico atto totalmente libero e pienamente cosciente del giovane figlio di Agamennone. Ma non riuscirà a portare a termine il suo piano omicidiario, il suo gesto di libertà, per il bizzarro ed estremo intervento di Apollo, che imporrà la pace tra il giovane matricida e Menelao, divinizzando beffardamente Elena, la causa di tutti i mali tra greci e troiani.

Vicenda cupa e angosciosa dal finale solo apparentemente lieto, Oreste, oltre a essere una delle più riuscite prove drammaturgiche di Euripide, è una vera e propria indagine sul sacro e sul divino coi mezzi della tragedia. Qui, ancor più che nell’Ifigenia in Aulide, Euripide ingaggia un corpo a corpo con le divinità olimpiche, facendo emergere la loro insufficienza e la necessità di un ordine superiore, di una Giustizia: sembra spingere contro le pareti del tragico, sembra volerlo mettere in discussione, decostruire un genere, una tradizione che gli arriva dal modello soprattutto eschileo. Prova ne è la convenzionalità del deus ex machina euripideo – qui ancora più artificioso che nelle altre sue tragedie – che interviene nel momento di più alto parossismo per stabilire una pace solo formale e perciò molto poco credibile.

È proprio l’artificiosità della soluzione finale euripidea a rivelare da un lato la distanza siderale del dio, la sua differenza ontologica rispetto agli umani; dall’altro l’impossibilità di ogni conciliazione e l’illusione della catarsi, che qui appare “bloccata” proprio dalla pervasività del tragico, connaturato all’umano.

A rimanere allora, è l’uomo, abbandonato alle sue scelte e alla sua coscienza. L’irruzione del dio Apollo che ferma Oreste e il suo piano omicidiario, è un gesto di umiliazione dell’umano a cui il Dio non consente nulla di veramente libero, neanche nel male. Euripide anticipa così – per contrasto e in maniera vertiginosa – un tema che si affaccerà soltanto col cristianesimo per poi diventare il tema par excellence della modernità: la libertà.

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