"Turandot" – L’autenticità dello spirito pucciniano restituita al Teatro Antico

“Turandot” – L’autenticità dello spirito pucciniano restituita al Teatro Antico

giovanni francio

“Turandot” – L’autenticità dello spirito pucciniano restituita al Teatro Antico

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domenica 23 Luglio 2023 - 10:51

Venerdì 21 luglio, con replica il 23, per il Festival Taormina Arte 2023, è andata in scena l'opera. La recensione

Foto di Giacomo Orlando

TAORMINA – Venerdì 21 luglio, con replica il 23, è andata in scena al Teatro Antico di Taormina l’attesissima Turandot, per il Festival Taormina Arte 2023, in una versione, se pur caratterizzata da molti elementi di novità e originalità, assai rispettosa dello spirito pucciniano.

La recensione

E’ stata una rappresentazione assai interessante, sotto molteplici aspetti di cui farò cenno di seguito. L’ultima opera di Giacomo Puccini, incompiuta, affronta tematiche e ambientazioni del tutto nuove anche per il compositore. Si tratta infatti di una storia fiabesca ambientata a Pechino, in Cina, su libretto di G. Adami e R. Simini, tratto dall’omonima fiaba di C. Gozzi.

Il capolavoro di Puccini, suddiviso in tre atti e cinque quadri, narra, come è noto, la storia di Turandot, principessa della Cina, che, per vendicare un torto fatto ad una antica ava, costringe i suoi nobili pretendenti a sottoporsi alla prova di tre enigmi: gli sventurati, indovinando gli enigmi, avranno in premio la principessa, ma in caso contrario verranno decapitati dal boia. Ben 12 nobili subiranno l’infausta sorte, ultimo il principe di Persia, per il quale il popolo invano chiederà la grazia, fino alla venuta di Calaf, principe straniero, che indovinerà i tre enigmi. Di fronte alla disperazione di Turandot, il principe straniero le offrirà una possibilità: se scoprirà il suo nome entro la mattina del giorno successivo la principessa otterrà la sua morte. Tutta la notte ai sudditi del regno, fra i quali i tre ministri Ping, Pong e Pang, sarà vietato dormire, per cercare di scoprire il nome del principe straniero (da cui la celeberrima aria “Nessun dorma” una delle più celebri e sublimi di tutta la storia del melodramma). I tre ministri, che prima delle prove degli enigmi avevano narrato la triste fine degli altri nobili cimentatisi, ed erano impegnati a preparare i due cerimoniali alternativi (le nozze o il seppellimento), cercheranno di carpire il nome dallo stesso principe, offrendogli in cambio schiave, denaro e la fuga, ma invano. Solo Liù, la dolce schiava del vecchio e malconcio re tartaro Timur, padre di Calaf, spodestato dal trono, conosce il nome del principe, ma non lo dirà neanche sotto tortura, anzi lei stessa si darà la morte.

La regia è minimalista, affascinanti i costumi, efficaci gli interpreti

Questa la trama, per sommi capi, che al Teatro antico di Taormina si è sviluppata attraverso una regia e una scenografia minimaliste, a cura di Giancarlo Del Monaco, coadiuvato dal light designer Wolfgang von Zoubeck: un enorme cubo, ruotante su un perno, dotato di porte che si aprono in ogni lato a seconda del quadro o scena da rappresentare, escamotage molto efficace e suggestivo, come la scalinata che appare aprendo queste porte, ove in cima è seduto il sovrano, padre di Turandot, figura immobile e statuaria, o, in piedi, la stessa principessa, fredda e altera, nell’atto di formulare gli enigmi fatali.

Altrettanto interessanti e affascinanti i costumi, anch’essi ad opera di Del Monaco, con maschere e colori diversi fra i sudditi, nero, giallo-verde per il popolo che funge da coro, rosso per i saggi, oro per l’imperatore, a sottolineare i diversi gradi di importanza, ma tutti succubi e obbedienti al sovrano. Costumi semplici, in marrone, per Liù e il vecchio re tartaro, in nero Calaf, mentre straordinaria la resa scenica di Turandot, con una veste elegantissima e un ricco diadema sul capo, proprio come è raffigurata nelle antiche stampe liberty coeve alle prime rappresentazioni dell’opera.

Il regista ha scelto invece tre costumi della commedia dell’arte – Pantalone, Arlecchino, Brighella – per i tre ministri del regno Ping, Pong e Pang, a voler significare il lato più ironico, o forse grottesco, di una vicenda altrimenti densa di tensione e sinistra. Anche nella Turandot di Ferruccio Busoni i ministri (due) hanno nomi attinti dalla commedia dell’arte, Tartaglia e Pantalone. Tuttavia, pur rispettando la scelta, a mio modesto avviso, i costumi dei tre personaggi sono apparsi troppo avulsi dal contesto, quando forse sarebbe stato più efficace scegliere una ulteriore gradazione di colori per i tre bravissimi interpreti.

L’esecuzione da parte dei solisti è stata più che soddisfacente. Oltre i bravi Ping, Pong e Pang, interpretati rispettivamente da Manel Esteve (baritono) Andrea Galli e Orlando Polidoro (tenori), molto efficaci anche nella mimica, con le tipiche movenze da commedia dell’arte, e molto applauditi, i due principali protagonisti, il soprano Gabrielle Mouhelen (Turandot) e il tenore Marcelo Puente (Calaf), hanno esibito una eccellente presenza scenica, la principessa davvero immersa nel proprio ruolo, con una bella voce, anche se talora un po’ insicura. Calaf, anch’egli dotato del “phisique du role”, ha sfoggiato una voce, se non particolarmente potente, sicura e senza sbavature, duttile nelle varie modulazioni, ovviamente molto applaudito dopo “Nessun dorma”.

Liù, interpretata dal soprano Lana Kos, ha probabilmente fornito la migliore performance, almeno dal punto di visa canoro, con una voce calda e dolente, applauditissima. Bene anche Ruben Amoretti, interpretazione sofferta del vecchio Timur. Eccellenti i cori, sia il Coro Lirico “Francesco Cilea” diretto dal M.°Luigi Petrozziello che il delizioso Coro di Voci Bianche “BiancoSuono” diretto da Agnese Carrubba, fondamentali in quest’opera, impressionanti anche dal punto di vista visivo, con quelle maschere tutte uguali del popolo, enigmatiche e uniformi, quasi a simboleggiare una cieca obbedienza al potere.

Bene anche i ruoli comprimari: Adriano Gramigni (un Mandarino) e Cristobal Campos (l’Imperatore Altoum).

Un cenno d’obbligo alla Taormina Arte Festival Orchestra, ove ho riconosciuto diversi musicisti dell’Orchestra del Teatro Messinese. Turandot è un’opera dalla straordinaria modernità; Puccini, seguendo l’esempio di qualche anno prima di Debussy, con l’opera Pelleas et Melisande, adopera una incredibile tavolozza di colori timbrici, abolisce la cesura fra recitativo ed aria, fa addirittura a meno del Preludio, entrando subito, dopo alcuni accordi sinistri di sconcertante modernità, “in medias res”. Non era facile, pertanto, affrontare dal punto di vista orchestrale tali caratteristiche, ma l’Orchestra è stata più che dignitosa, molto precisa, e attenta (quasi) sempre a non sovrastare le voci, sotto la raffinata ed elegante direzione di Gianluca Martinenghi.

Come detto all’inizio, la Turandot è un’opera incompiuta, fu completata, sulla base degli appunti lasciati dal maestro, da F. Alfano.

Puccini ha lasciato il suo ultimo capolavoro con l’aria di Liù “Tu che di gel sei cinta” prima che lei stessa si tolga la vita. Alla prima rappresentazione, il 25 aprile del 1926, al Teatro alla Scala di Milano, Arturo Toscanini, che la diresse, dopo l’aria di Liù, posò la bacchetta, si rivolse al pubblico con un moto di commozione, e disse, “Qui il maestro è morto”, abbandonando il palco e lasciando attoniti gli spettatori.

La maggior parte delle versioni di Turandot vengono rappresentate con il finale postumo di Alfano, ove Turandot, alla scena del suicidio di Liù, si scopre attratta da Calaf, si fa baciare da lui, che le svela il proprio nome, e annuncia di conoscere il nome dello straniero: “Amore”.

La fine incompiuta però, per uno strano caso del destino che accomuna molte altre incompiute, che vedono l’ultimo brano autentico come uno dei più belli e commoventi dei capolavori di riferimento – un esempio per tutti il Lacrimosa del Requiem di Mozart – regala una delle arie più belle e toccanti dell’opera, e nel contempo fa assurgere Liù, finora figura secondaria, quale assoluta protagonista, simbolo del vero amore, disposta al sacrificio della vita per non tradirlo, in contrasto con la gelida Turandot, che rifugge l’amore, ma anche di Calaf, innamorato, anzi abbagliato dalla fugace bellezza di Turandot.

Il regista Del Monaco non ha tradito l’autenticità dell’opera, che si è conclusa al Teatro Greco proprio con l’aria di Liù, e mentre la stessa muore viene portata sul palco una grande fotografia di Giacomo Puccini, momento davvero toccante, il miglior modo per celebrare il centesimo anniversario della morte del grande maestro. Chapeau.

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