Ci salverà il sapere non la denuncia

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martedì 04 Maggio 2010 - 08:00

«Il Meridione non è il bubbone che impedisce al paese di decollare, ma la cartina tornasole di problemi globali come la crisi educativa». L’analisi del filosofo Barcellona, comunista e «allergico ai professionisti dell’antimafia»

di Chiara Rizzo

La situazione politica siciliana – con il Pdl spaccato da oltre un anno e in piena faida tra “correnti”, tra lealisti e traditori – è stata una delle metaforiche “scarpe” che Berlusconi e Fini si sono lanciati nel corso della lite alla direzione nazionale del Pdl. Per Pietro Barcellona, già docente di Filosofia del diritto all’università di Catania, membro del Csm e della commissione giustizia della Camera e deputato del Pci, non è un caso: quanto accade nell’isola è la cartina tornasole di quello che vive l’Italia, sostiene il professore. Secondo Barcellona tuttavia per affrontare la questione meridionale bisogna mettere da parte i luoghi comuni e fare una riflessione che prima ancora che politica è culturale. Come lo stesso Barcellona ha scritto qualche tempo fa sulle pagine di un quotidiano locale, il Meridione non è un bubbone malato che i paladini della giustizia possono estirpare da un corpo malato a suon d’inchieste. Il filosofo mette in guardia da altri luoghi comuni mediatici (dai miti “à la Saviano” alla sottovalutazione di un fenomeno come quello della Lega Nord), ma soprattutto indica una strada di rilancio: ripartire dall’educazione. Come sta tentando di fare lui stesso con un ciclo di seminari di alta formazione che si terranno nella sua città, rivolti proprio ai giovani. «Voglio pensare alla speranza», dice a Tempi.

Lei è un uomo che conosce molto bene la realtà del Sud. Cosa sta succedendo?

Il Mezzogiorno è completamente dimenticato, è un’area di arretratezza economica e di malaffare, dove regnano ’ndrangheta e mafia. Ma da questa situazione non si esce se si continua a ripetere che il Sud è la palla al piede che impedisce al paese di decollare. Non bisogna dimenticare che il Mediterraneo è stato, per millenni, luogo di incontro e di cultura e che la Sicilia è sempre stata una terra di confronto, in cui, ad esempio al tempo di Federico II, convivevano arabi, ebrei, cattolici, costruendo intrecci di culture e di tradizione. È da questo che bisogna ripartire per il rilancio del Sud, aprendosi al Mediterraneo e alle sue culture, invece di barricarsi respingendo le differenze.

Però, se leggiamo i quotidiani catanesi di questi giorni, la situazione descritta al Sud è ben più sconsolante. Proprio a Catania, tra l’altro, è scoppiata una nuova guerra di mafia. Compaiono nuove forme di criminalità: va di moda il sequestro di auto. Dopo il furto, viene richiesto il riscatto. Crede che esistano davvero cultura e civiltà al Sud?

Quello che descrive è un imbarbarimento, ma non è un imbarbarimento solo del Mezzogiorno. Prendiamo per esempio un fatto agghiacciante, che ha segnato Catania, come l’uccisione dell’ispettore di polizia Filippo Raciti, durante degli scontri avvenuti dopo un derby. Le tifoserie che diventano masse furibonde sono un fenomeno globale, non siamo di fronte a episodi del degrado meridionale ma a manifestazioni della profonda crisi che investe l’intera umanità, con la fine del legame sociale e della solidarietà. La Sicilia è solo la cartina tornasole di problemi nazionali e globali. La presenza mafiosa è forte, ma l’abbandono di interi quartieri e l’assenza di istituzioni fa guadagnare terreno alla mafia e alla ‘ndrangheta, oltre che favorire l’assunzione di modelli educativi sbagliati. Ecco perché bisogna ripartire dalla formazione e dall’educazione. Anche i media hanno una responsabilità, in questo imbarbarimento.

Quale?

Sono più propensi alle manifestazioni spettacolari che all’approfondimento e così sono diventati uno strumento di cattiva educazione. A volte alcune trasmissioni sono bombe mediatiche, che spingono alla fuga e all’impotenza chi vorrebbe cercare di cambiare la realtà circostante. Io credo che spesso le certezze a senso unico ignorino che questo presente infame sia frutto di responsabilità passate, di tanti che hanno proclamato di aver scoperto la causa di tutti i problemi e di poterla eliminare, senza poi sortire alcun effetto positivo.

Quando parlano della rinascita del Sud i media creano i loro modelli. Per esempio Roberto Saviano. Lei cosa ne pensa?

Un altro paradosso: il presidente del Consiglio sbraita su questo fenomeno, ma poi la casa editrice che lo pubblica è guidata da sua figlia. Personalmente considero Saviano uno scrittore non eccezionale, che ha avuto una notevole pubblicità anche grazie alla ribalta televisiva. Detto questo, è un uomo coraggioso, ma non credo sia un bene per il paese aver bisogno di uomini coraggiosi. Anzi, guai a quel paese che ha bisogno di eroi, perché significa che è un paese che non riesce più a vivere la sua normalità. Personalmente, come Leonardo Sciascia, di cui ero amico, non ho mai amato molto i professionisti dell’antimafia. Sono convinto che nel paese ci sia una classe politica mediocre, spesso senza rapporti col territorio, e che il sistema elettorale favorisca questa mediocrità; purtroppo oggi soltanto la Lega fa un lavoro sul territorio, ed è drammatico che solo un partito che diffonde e pratica xenofobia e razzismo violento riesca a parlare alle realtà popolari. Anche per questo ribadisco che si debba riparlare di “crisi”, di crisi del legame sociale, dello statuto antropologico, dei saperi, per cercare di ricostruire una speranza nel futuro.

Perché ci tiene così tanto?

Con i seminari di alta formazione abbiamo cercato un confronto tra più saperi, sul tema del progresso impetuoso della ricerca scientifica e del futuro dello stesso statuto antropologico. In tutti i campi siamo di fronte a un processo di trasformazione di così ampia portata da porre una serie notevole di problemi, persino la conoscenza della realtà è ormai un problema: la biotecnologia ha modificato alla radice il concetto di vita, mettendo nelle mani dell’uomo non solo un potere manipolativo, ma la possibilità di creare ex novo un progetto vivente. Le odierne tecnologie stanno cambiando la nostra fisicità, il nostro modo di vivere, le nostre stesse strutture del pensiero; poiché non si limitano più a potenziare il nostro fisico o i nostri sensi, ma giocano con lo strumento primario del nostro rapporto col mondo, l’oggetto su cui si basa la nostra identità di esseri umani: la persona. Gli esseri umani hanno sempre cercato di trascendere con la propria attività la propria condizione di essere mortale, che oggi sembra addirittura dimenticata, insieme a tutti i saperi legati alla riflessione sulla coscienza, sulla decisione tra bene e male, sulle relazioni tra le persone e sull’affettività. Oggi questa riflessione rischia di essere marginalizzata dal prevalere dello scientismo, per cui tutto è riducibile ad una spiegazione chimica o tecnica. L’anima in pillole: ecco il risultato del sapere scientista nell’epoca post-moderna, anzi post-umana. E questo vale per tutti i campi, anche quello giuridico.

In che modo?

Il problema della vita, o meglio del potere sulla vita e del rapporto tra vita e potere è diventato la posta in gioco del nostro tempo. Viene introdotta una logica mercificatoria, e quindi capitalistica, in tutto ciò che prima era considerato natura e vita. Siamo di fronte a una trasformazione antropologico-genetica dell’umanità e la posta in gioco è la vita. A questa trasformazione corrisponde un’inflazione legislativa per cui si vuole legiferare su tutti gli aspetti della vita umana, ma tale inflazione non corrisponde all’idea di una persona destinataria delle norme: la persona è scomparsa, le norme hanno frantumato l’esperienza umana in tanti segmenti. Quello che avviene nel campo della manipolazione genetica, ad esempio, è un disconoscimento della persona, che è invece un’identità complessa, non riducibile alla semplificazione giuridica: la riduzione del vivente a mera informazione biogenetica sta portando ad una progressiva autonomizzazione di informazioni rilevanti ai fini di produzione di nuova ricchezza, e questo produce la brevettabilità delle informazioni e la mercificazione della vita umana.

Cosa intende?

Avendo iscritto la nuda vita nell’ordinamento giuridico statuale, nel governo politico dei corpi, si è completamente rovesciata la situazione del diritto in una totale soggezione. Nella biopolitica prevale il biologico puro, di fronte al quale si erge un sistema, un potere, un apparato senza nessuna di quelle mediazioni che secondo la terminologia classica potrebbero essere un’organizzazione sociale oppure una nazione. La desocializzazione del diritto è simmetrica a una globalizzazione in cui scompare il problema del governo politico. Ma più ciascuno di noi si percepisce astrattamente, più si esauriscono le relazioni vitali con gli altri individui e con il mondo, producendo una vera e propria crisi di civiltà.

E qual è il rischio?

La crisi di civiltà è una profonda crisi dello statuto antropologico; quello che la frantumazione ci consegna non è un semplice alternarsi di caos e ordine, né una pura metamorfosi dei problemi dell’umanità globalizzata, è qualcosa che incide profondamente nello statuto antropologico inteso come strutturazione di strati di memoria. Gli esseri umani sono problema a se stessi, e questo ha dato vita alle più diverse forme di civiltà, secondo le risposte che venivano date a questo interrogativo. Queste risposte costituiscono lo statuto antropologico di una civiltà. Oggi invece siamo di fronte alla parcellizzazione di tutti i saperi, anche nel sistema formativo, in cui manca una visione complessiva, senza la quale si finisce per agire in nome di una falsa ideologia. È davvero la riduzione dell’essere umano a pura materia prima della tecnica. Il tentativo umano di produrre le proprie condizioni di esistenza si è capovolto nella produzione dell’esistenza senza cooperazione umana. Le narrazioni evoluzionistiche, scientiste e tecnologiche sono la rappresentazione del nuovo scenario in cui viene cancellata ogni specificità dell’esistenza umana, e con essa le dinamiche degli affetti, l’amore e l’odio, la dipendenza e la libertà.

Tratto da Tempi

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