Il vescovo Montenegro ai messinesi: «Amiamo la nostra città»

Il vescovo Montenegro ai messinesi: «Amiamo la nostra città»

Il vescovo Montenegro ai messinesi: «Amiamo la nostra città»

lunedì 12 Novembre 2007 - 11:21

Intervista con il presidente della Caritas Italiana e Vescovo ausiliare di Messina. «Ci manca il senso d'appartenenza»

Monsignor Montenegro, o “Padre Franco- come più semplicemente ama chiamarlo chi gli è più vicino, sa sempre trovare le parole giuste. Il Vescovo ausiliare di Messina la Parola l’ha portata in giro per il mondo, l’ha fatta ascoltare a coloro che hanno sempre vissuto nella sofferenza, e alle parole ha sempre fatto seguire le azioni. Per questo oggi è presidente della Caritas Italiana, ma anche presidente della Commissione Episcopale per il servizio della carità e la salute, della Consulta Nazionale per la pastorale e la sanità, della Consulta Ecclesiale degli organismi socio-assistenziali. In un periodo storico come questo, in cui la città è ansimante, si sente precaria, senza una guida politica, in balia degli eventi, la parola di “Padre Franco- diviene illuminante per affrontare la quotidianità.

Partiamo proprio dai concetti di assistenza, di accoglienza. La questione Rom nelle ultime settimane è balzata agli onori della cronaca, a Roma come a Messina. L’impressione è che si sia passati da una preoccupante indifferenza ad una ancora più preoccupante intolleranza.

«L’intolleranza è violenza. Ma anche l’indifferenza è violenza. Anzi, qualcuno diceva che è la più alta forma di violenza, perché nascosta. Nel passaggio dall’indifferenza all’intolleranza non è cambiato il nostro atteggiamento, semplicemente viene espresso in un’altra maniera. Noi rifiutiamo chi è diverso. Il problema, però, non sta nell’accoglienza, ma in ciò che ci ricorda il diverso, ovvero che esiste la povertà. E dunque preferiamo escluderlo dalla nostra vita. Ma nei momenti di lucidità, quando ci si ferma a riflettere, si pensa: “Ma noi senza di loro, gli extracomunitari, come andremmo avanti?-. Ci servono le loro braccia, ma ci poniamo il problema di cosa serve a loro? Il punto è che dobbiamo convincerci del fatto che la nostra è ormai una civiltà multietnica, e dunque dobbiamo abituarci a convivere con loro. I Rom hanno una loro cultura, che in un certo senso fa a pugni con la nostra, ma è solo stando accanto che potremo aiutarci. Come è possibile che un Rom si comporti bene quando è costretto a vivere come gli animali? Noi pretendiamo che loro si comportino come noi, ma sono nelle condizioni perché ciò avvenga? Ricordo una giovane Rom che portava la figlia all’asilo a pagamento, e per non farsi riconoscere ogni mattina prendeva il treno e andava a fare l’elemosina a Taormina. Io sono entrato in diverse roulotte di nomadi: alcune erano tenute come bomboniere, altre erano in pessime condizioni».

Come si fanno a conciliare queste diversità culturali?

«Noi apriamo le porte ai nomadi, li facciamo entrare nelle nostre città, non ci curiamo delle loro condizioni di vita, se costruiscono una baraccopoli che facciano pure. Ma poi quando c’è il caso ci accorgiamo di loro, ci creiamo il problema. Certo, è chiaro che i Rom devono seguire un sistema di diritti e doveri, ma bisogna conoscerli per adottarli. L’elemosina in strada, secondo la loro cultura, è un lavoro. Ricordo che una volta convincemmo un ragazzino che non doveva lavare i vetri al semaforo. Lui trovò un lavoro, da lavagista. E mi disse: “Qui guadagno 20mila lire in un giorno, quando ero in strada ne prendevo 50mila-. Una madre Rom che portava la sua bambina con sé per strada diceva così: “E’ vero, non la dovrei portare in strada. Ma come faccio a lasciarla sola al campo?-. Questo ci porta al problema della scuola. I ragazzini nomadi crescono in assoluta libertà, non possono, da un giorno all’altro, sedersi dietro a un banco per cinque ore. E allora forse bisognerebbe inventare qualcosa di diverso per aiutarli a integrarsi. Tempo fa proposi di fornire il campo nomadi di un assistente sociale, o che un vigile passasse ogni giorno di lì, per iniziare questo dialogo tra la loro cultura e le nostre istituzioni».

Quando manca una guida politica, come in questo momento a Messina, ma un po’ in tutta Italia, dove si parla sempre più spesso di “antipolitica-, quale diventa il ruolo della Chiesa?

«La Chiesa ha dato prova negli anni di aver sempre scelto di stare dalla parte degli ultimi, e quella di eccessivo “buonismo- è l’accusa più stupida che si possa fare alla Chiesa. Ha sempre operato per un servizio di accompagnamento dell’uomo. Da qui i primi ospedali con San Camillo, le prime azioni di aiuto contro la tossicodipendenza, le operazioni di assistenza agli immigrati che hanno visto impegnate per prime la Chiesa e le associazioni di volontariato, intervenendo lì dove magari lo Stato arrivava dopo. La carità è anche educazione, è riconoscimento della dignità».

A proposito di dignità, ci ha impressionato la grande forza di volontà trovata tra coloro che sono stati colpiti dalle alluvioni delle scorse settimane. A Giampilieri, ad esempio, la comunità s’è stretta attorno al suo parroco, divenuto punto di riferimento per tutti.

«In questi centri la parrocchia è al centro di tutto. Ma anche nelle realtà più grandi la Chiesa è presente. Qualunque emergenza, dalla più piccola alla più grande, richiede questa presenza, perché “il Signore ascoltò il grido dei poveri-. La Chiesa c’è sempre, per qualsiasi uomo, non chiede la carta d’identità».

Questi sono tempi in cui il problema sociale cresce, le famiglie devono affrontare continue difficoltà economiche, manca il lavoro, e si finisce sempre più spesso nelle mani dell’usura. Quanto può essere determinante l’aiuto di una guida spirituale?

«La Chiesa non fa solo catechismo per avvicinare i bambini alla religione. Il perno centrale del suo annuncio è la dottrina sociale, pensata per l’uomo, e per aiutare l’uomo ad essere uomo. Quando il Papa parla non lo fa per interferire. Ci sono elementi che hanno bisogno di un intervento affinché venga riconosciuta la dignità. Al centro di ogni azione c’è e ci deve essere l’uomo, non l’interesse, il profitto, il mercato. Alla Chiesa interessa l’uomo,che venga rispettato, e quando si dicono certe cose, non si può parlare di interferenza».

Messina non vive un periodo fortunato. C’è un preoccupante vuoto istituzionale, una nuova campagna elettorale riempirà di tante parole i messinesi. Ma da quali basi si deve tentare di ripartire?

Prima di rispondere, mons. Montenegro si alza e va a recuperare una poesia chiamata “I Messinesi-, la quale traccia un quadro incredibilmente reale della messinesità. Poi mi mostra la data, ed è 1902. Nulla è cambiato da allora. «Il senso di precarietà è insito nella nostra comunità. Sembrerà strano ciò che dico, ma l’unica base da cui partire è amare questa città. Al messinese manca il senso dell’appartenenza. Un catanese o un palermitano si farebbero uccidere per la propria città, un messinese no. Noi chiediamo che la città si metta a disposizione nostra e non ci mettiamo a disposizione sua. Dobbiamo sentirci messinesi, sentire nostra Messina, ed imparare ad amarla».

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