Ad un giorno dalla presentazione del suo libro d’esordio, la giovane poetessa messinese si racconta.
Ha 27 anni, Roberta Borgia. Un marito, due figli e una passione: scrivere poesie. Per quel che ricorda, ha iniziato in tenera età, ad appena 6-7 anni. «Ma il mio interesse – precisa – non si è concentrato subito sulla poesia, mi dilettavo soprattutto con i racconti». Poi, a 18 anni, partecipa al concorso di poesia “Antonino Sciabbà”. E vince. Un trionfo inaspettato, soprattutto perché minimamente progettato. «È stato tutto un caso. “E poi, la resistenza” non è stata scritta pensando al premio, perché non ne sapevo niente. È venuta fuori da una mia riflessione sulla situazione storica del momento, in particolare dell’Italia, dove il partito della Lega stava prendendo piede. Ho avuto paura che nel paese dilagassero forme di razzismo. Poi, mentre mi trovavo al mare, immersa nei miei pensieri, ho inventato l’immagine dei “subitanei scintillii delle acque” e da quella è venuta fuori l’intera lirica. Ho deciso allora di presentarla al concorso, ma non mi sarei mai aspettata di vincere». Così come non avrebbe pensato di scrivere altre poesie. Certo, lo studio scolastico di poeti contemporanei quali Ungaretti e Montale l’ha senz’altro colpita, senza dimenticare l’affascinante ritratto di Pablo Neruda ne “Il postino”, ma dalla stesura di quella prima poesia è successo ben altro, le si è aperto un nuovo mondo. «In maniera del tutto naturale, ho cominciato a tramutare ogni immagine, ogni pensiero, in versi». È nata così la raccolta “Se ridete del mio mondo, voltatevi” (Aletti, 2009), che sarà presentata domani sera alle 21, al Circolo Pickwick. È un diario che raccoglie appunti di vita e di storia collettiva, dialoghi con l’altro, riflessioni, autoritratti, interrogativi sui tempi che viviamo e su un futuro verso il quale l’autrice, che si definisce “figlia di fantocci teatranti”, non pare nutrire grandi speranze. «Questo è un periodo distruttivo per la mente umana», dichiara infatti. In una società crudelmente indifferente, il cui metro di giudizio si basa sui canoni dettati dalla televisione, in un clima di falsità e distacco che, afferma l’autrice, «mio malgrado, influenza il mio quotidiano, anche a livello emotivo», la poesia diventa però un valido strumento, forse appositamente tenuto ai margini. «La poesia è per me un mezzo di denuncia, un veicolo per insinuare il dubbio. Perché costringe chi legge a fermarsi e riflettere. E in questo modo esercita la ragione». L’orizzonte che si affaccia agli occhi della poetessa è dunque cupo, ma un primo passo – come lei stessa sostiene – «è iniziare ad indignarsi». Anche sugli affetti aleggia un velo di tristezza e di caducità. Eppure “basta un solo tuo timido bacio per sciogliere i nodi di una vecchia violenza”. La pagina diventa così uno scrigno di variegati sentimenti (dolore, odio, sfiducia, paura, nostalgia, amore), che si dischiudono senza infingimenti, seguendo i percorsi della mente. «La mia poesia parla di me solo quando ritengo che quell’aspetto della mia vita possa estendersi da un piano strettamente personale e individuale ad uno universale», precisa tuttavia l’autrice. Una base sociale è dunque sempre presente, eppure – non lo si può negare – questo suo fare poetico svolge una funzione intimamente catartica: «Prima di “partorire” una lirica vivo una sorta di turbinio interno, una insofferenza, uno strano malessere che mi accompagna per giorni e giorni, persino mesi, finché, di getto, non fermo sulla pagina le mie riflessioni. E in quell’attimo mi sento già meglio». Ad essere denunciate non sono solo le contraddizioni della società, ma anche quelle che la poetessa riconosce in se stessa. Rivolgendosi ai propri cari chiede, allora, di essere accettata così com’è ,“con il fascino della mia guerra”. “Nascosta ed esposta, amata e umiliata”, al mondo intero invece grida: “Se ridete del mio mondo, voltatevi”.
