Tutto esaurito per la prima del nuovo spettacolo di Tino Caspanello al Teatro dei 3 Mestieri. Si replica ancora oggi e domenica
MESSINA – Buio. Nel suo affievolirsi, compaiono due personaggi, un uomo e una donna dagli abiti colorati e, con loro, una valigia (che fungerà anche da unica scenografia).
Lo stile della donna ricorda un po’ una pin up, non a caso, infatti, il suo nome è Merilin (ma con la “e” e l’accento sull’ultima “i”); l’uomo, invece, è il Signor Pippo, idraulico ex poeta (sebbene il suo abbigliamento richiami anche quello di un aviatore). Questi, però, non sono i loro veri nomi, non sono le loro vere identità, né tantomeno i ruoli che solitamente interpretano. Non sappiamo e non sapremo nulla di loro, solo che sono in fuga. Non sono qui, ma non sono neanche altrove (almeno per ora).
Sono i protagonisti di “Non siamo qui”, ultimo lavoro di Tino Caspanello (produzione Statale 114, Compagnia dell’Arpa, Teatro Pubblico Incanto, distribuzione Latitudini), in prima assoluta al Teatro dei 3 Mestieri di Messina, come secondo appuntamento della stagione “Mi presento così”.
Cinzia Muscolino e Tino Calabrò danno volto e voce a questi due personaggi fuori dallo spazio e dal tempo, portandoci – con la forza delle loro parole, dei loro silenzi e della loro espressività dirompente – in un viaggio che nella fuga dal reale ne ricerca il senso più profondo; un viaggio all’interno del teatro, della sua capacità introspettiva, della sua profondità e della sua leggerezza, tra richiami al cabaret e all’avanspettacolo; un viaggio all’interno di noi stessi e delle strade che intraprendiamo nel nostro personale cammino di fuga.
Il piano programmato dal duo non va come sperato, non riescono a raggiungere la meta, tra intoppi con la polizia (risolti con l’ausilio di un particolarissimo utilizzo della lingua inglese da parte di Merilin), tentativi di superamento dei confini sbagliati, bombe e treni su cui saltare. Non conosciamo quale dovesse essere la loro meta originaria, forse neanche c’è, resta un non-luogo, da sempre simbolo dell’utopia (che, derivando dal greco antico “ou”, no, e “tópos”, luogo, proprio non-luogo significa), un ideale perfetto e astratto lontano dall’imperfezione del reale. Ciò da cui fuggono, infatti, è proprio questo reale così imperfetto, a partire dalla “ceralacca sulla bocca” fino “ai vincitori che non sanno più su chi hanno vinto”. Fuggono dall’abitudine, dalla inutile quotidianità, dai modelli e gli stili di vita imposti da una società alienante, dalle maschere di una realtà inautentica.
Ma a cambiare le cose non è tanto il raggiungimento di una meta, la scoperta di un luogo Altro, quanto la possibilità stessa del sognarlo. Pensare ad un altrove, spingersi verso la sua ricerca, lasciarsi guidare da ciò che appare surreale, fornisce già un senso diverso all’esistenza. Non è nel risultato che sta il valore del percorso, ma nel percorso in sé.
In tale percorso i protagonisti si trovano, si scoprono, si rivelano. Merilin racconta un sogno in cui pensa di essere circondata da neve, ma la neve si trasforma in conigli bianchi (il coniglio – abituato a scavare tane sottoterra per proteggersi dal mondo fuori – rappresenta chi si nasconde dalla realtà, chi ne ha paura. Ma, ancora, il coniglio bianco di Lewis Carroll, per esempio, incarna la frenesia alienante della quotidianità, in perenne lotta contro il tempo. Il coniglio bianco, infine, è l’unico protagonista della locandina dello spettacolo).
Accanto ai loro sogni, i personaggi parleranno anche della loro vita: un continuo boicottaggio in cui, proprio quando si inizia a divertirsi, ogni gioia viene interrotta, come una campanella che ricorda che la ricreazione è finita.
Rifletteranno, soprattuto, su loro stessi, sulle loro sensazioni, sui loro timori. Come dinanzi ad uno specchio rotto, allo stesso modo, a volte, sentiamo la nostra immagine spezzata in mille frammenti, con l’impossibilità di riconoscerci. Così confesserà di sentirsi Merilin, destrutturata, decostruita. Ma, forse, è arrivato il momento di ricomporre tutti i pezzi.
Insieme riconosceranno di star solo facendo finta di vivere, come fanno in tanti, come, forse, facciamo un po’ tutti. Ma scopriranno che nel niente ci si può inventare il mondo.
La ricerca – raggiunta, non raggiunta o irraggiungibile che sia – di quel luogo metafisico cui ambiscono i protagonisti, al contrario di un’evasione dal reale ci permette di osservarne il senso più profondo, facendo a meno di ogni mera apparenza, di ogni sovrastruttura, andando oltre la superficiale fisicità delle cose (ancora una volta, è proprio il termine stesso metafisica, derivato dal greco metà tà physiká “dopo le cose fisiche”, ad esprimere etimologicamente la capacità di andare oltre la fisica, oltre la fisicità della realtà sensibile alla ricerca del suo vero significato).
Allo stesso modo della storia che racconta, anche assistere a “Non siamo qui” ci permette di ergerci al di sopra della prima fisicità delle cose e raggiungerne il senso profondo. A questa profondità viene tolto ogni gravoso peso grazie al cammino che ci conduce ad essa, fatto di leggerezza, sorrisi e risate. La capacità di raccontare la profondità con leggerezza e delicatezza e la leggerezza con profondità è cifra distintiva per la drammaturgia di Caspanello, qui arricchita dalla scelta – non comune per il regista – di un vasto repertorio musicale e del solito attentissimo gioco di luci.
In questo viaggio attraverso reale e surreale, maschere, emozioni e sogni, ciò che resta è tanto fango e terra sotto le scarpe. Ma su quel fango e su quella terra sarà possibile dare radici a un fiore, piantarlo e far sì che germogli. Così possono togliersi le maschere i due protagonisti, trovare radici anche loro e fermarsi in un ultimo ballo dal sapore dolciastro – come quello che restava agli invitati di un matrimonio dopo che gli sposi sparivano via. Quest’ultimo ballo dolce e amore è proprio della vita, fatta di apparenze, di superficialità, ma anche di positive contraddizioni, per cui dal fango possono nascere i fiori.
Thomas Eliot scriveva: “Il genere umano non può sopportare troppa realtà”. Non possiamo sopportarla perché è troppo spesso finta e alienante, per questo abbiamo bisogno dell’arte, in grado di comprenderla evadendo da essa e invadendola al tempo stesso. È il patto sur-realista che l’immaginario sancisce con il reale. Incontro dialettico tra reale e irreale, confronto tra la realtà dei nostri sogni e i sogni che abitano la nostra realtà, scioglimento di ogni finzione e riscoperta di noi stessi, finalmente faccia a faccia con ciò che siamo.
Immersi in questo patto, nel mezzo di questo confronto dialettico, usciamo fuori da teatro, con l’animo in subbuglio ma la voglia di abbandonare ogni maschera e tornare ad avere il coraggio di sognare.