Le conseguenze dei Si ai referendum sull'acqua si stanno facendo sentire, sia come disimpegno dei privati che come conferma del diritto della politica a gestire tutti i servizi pubblici, a contenuto economico o meno
Chi è causa del suo mal pianga se stesso, vecchio proverbio che sintetizza le conseguenze voto pressoché plebiscitario, ai due referendum sull’acqua.
In forza di quei Sì, i potentati politici locali scaldano i motori per piazzare i propri sodali nei CdA in migliaia di enti; alla faccia dei vaniloqui di chi chiede alla Casta di fare un passo indietro nell’occupazione sistematica di ogni struttura di pubblica utilità.
Diventa ogni giorno più evidente che il vero quesito non era se si volesse salvare l’acqua dalla privatizzazione, bensì se si volesse mantenere, anzi rafforzare la presenza pubblica nella gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Servizi che vanno dalle centrali del latte alla raccolta dei rifiuti, dalla gestione dell’acqua a quella del gas, incluse decine di altre attività che dipendono solo dalla fantasia e dalla spregiudicatezza delle amministrazioni pubbliche.
Come storia insegna.
In sintesi, il Sì ha eliminato il pericolo di sottoporre a gara l’affidamento di tali servizi, riconsegnando agli enti locali la facoltà di gestirli “in house”, cioè di affidarli ad aziende private, miste o interamente pubbliche.
Scansato l’obbligo, previsto dalla vecchia normativa e imposto dalla Comunità europea, i tanti stipendifici pubblici continueranno a esercitare la loro funzione al servizio dei centri di potere locali ancora per molto tempo.
Producendo risultati come quelli dell’ATM o di MessinAmbiente.
Col risultato paradossale di vedere gli stessi cittadini protestare per l’occupazione sistematica di ogni struttura di pubblica utilità da parte della Casta e, contemporaneamente, avallare plebiscitariamente tale occupazione.
Ignoranza? Inganno? Autolesionismo? Odio per Berlusconi? Confusione mentale?
Ognuno può vederla come vuole, ma è innegabile che ne è uscito rafforzato chi gestisce male, mentre esce indebolito chi sperava che il sistema del libero mercato potesse costringere le amministrazioni locali a migliorare la qualità dei servizi ai cittadini.
Diverso, ma solo un poco, il discorso sul secondo quesito. Quello che si proponeva di escludere, nel calcolo delle tariffe, la remunerazione del capitale investito, previsto nella misura del 7%.
Non si trattava certo di una norma ispirata ad un liberismo cristallino, piuttosto si trattava di un tentativo di attrarre capitali – privati o pubblici – con la promessa di un utile marginale non indifferente.
Così da reperire sul mercato le risorse indispensabili per ristrutturare le reti idriche-colabrodo che causano non meno di 2,5 miliardi di euro.
Se qualcuno è in grado di spingere i privati a investire con strumenti più efficaci di quello della remunerazione garantita del capitale meriterà il Nobel dell’Economia.
La verità è che la speranza di assestare un’ennesima spallata contro Berlusconi ha prevalso sul buon senso; il Pdl si è tirato fuori, terrorizzato dal rischio di prendere l’ennesima legnata e il PD ha preferito sposare la rovinosa tesi del “i nemici dei miei nemici sono miei amici”.
Un sostanzioso contributo bipartizan a far andare in malora il Paese.
Onore all’Udc che ha saputo tenersi fuori da questa contrapposizione suicida.
