Lo si mormora, lo si teme, ma difficilmente siamo disposti ad accettare dati di questo tipo. Adesso, però, la verità ci viene “sbattuta- in faccia da una ricerca condotta dalla Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno) e a noi non resta che sperare che chi di dovere ne prenda atto. Al sud, i giovani laureati non riescono a trovare opportunità nel mondo del lavoro venendo così costretti ad emigrare.
Dunque, i dati parlano chiari: a distanza di tre anni dalla laurea si registra ancora un forte tasso di disoccupazione e, se il lavoro c’è, è atipico e riservato a pochi fortunati.
Le cause? Diverse e complesse, ma in primo piano ci sono la scarsa mobilità sociale, la mancata ripresa economica e il sistema scolastico.
Interessanti anche i dati della ricerca che evidenziano come vi sia una differenza netta di opportunità: fra i laureati meridionali sono soprattutto i figli di dirigenti (22,7 per cento) e di liberi professionisti (23,6 per cento) a laurearsi in corso. Servono, quindi, almeno secondo chi ha redatto tale ricerca, degli interventi rigorosi di inclusione sociale, al fine di evitare che i giovani restino ai margini della società. Il rischio, in caso contrario, è che l’emigrazione divenga di massa, rendendo le nostre regioni meridionali quelle con la popolazione più vecchia d’Italia. Una discriminazione che, purtroppo, porterebbe alla morte del territorio.
E per chi sceglie di restare? Lavoro atipico, spesso frutto della rete di conoscenze. Secondo l’indagine, se si è figli di dirigenti e imprenditori ci si affida ad amici, conoscenti e parenti per la ricerca dell’impiego (tra il 37 e il 41 per cento dei casi), più di quanto facciano altri lavoratori autonomi (22-25 per cento). Ma in questi casi la distanza tra Nord e Sud si accorcia: anche al Nord i figli di dirigenti e imprenditori si rivolgono a canali informali. E anche là i contratti li fanno a progetto.
