Teatro Vittorio Emanuele, straordinario successo per il Concerto di Capodanno

Teatro Vittorio Emanuele, straordinario successo per il Concerto di Capodanno

giovanni francio

Teatro Vittorio Emanuele, straordinario successo per il Concerto di Capodanno

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domenica 03 Gennaio 2016 - 09:15

Un programma variegato per un inizio dell'anno all'insegna del ritmo. Pregevole la direzione del giovane Maestro messinese Marco Alibrando

Il tradizionale Concerto di Capodanno proposto dall’Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele di Messina diretta da Marco Alibrando, è stato un concerto piacevolmente “meno tradizionale” del consueto. Infatti, prima dell’immancabile “An der schonen blauen Donau” di Johann Strauss jr., sono stati eseguiti, al posto dei soliti valzer e polke viennesi, l’Ouverture dal Guglielmo Tell di Gioachino Rossini, “I got Rhythm Variations” e “Rhapsody in Blue” di George Gershwin, con Gilda Buttà al pianoforte, ed il “Bolero” dI Maurice Ravel, tutti brani frizzanti e pieni di verve, ma che di solito non si ascoltano il primo dell’anno nelle sale da concerto.

L’Ouverture dal Guglielmo Tell, l’ultima opera composta dal musicista di Pesaro, presenta elementi di assoluta novità che si staccano dalle altre ouverture composte in precedenza, come, ad esempio l’assolo iniziale romantico del violoncello, che rivela un Rossini impegnato più agli aspetti espressivi che non ai soli effetti strumentali propri dei suoi “crescendo”, precorrendo così il melodramma di là a venire, a tal punto che fece scrivere a Berlioz: ”Su questa pagina prende l’avvio un’intera civiltà musicale”. Suddiviso in quattro episodi, il primo ed il terzo due andanti dal sapore pastorale, echeggianti i panorami delle montagne svizzere, il secondo, allegro, che evoca un temporale, ed il quarto, la celeberrima cavalcata, bissata alla fine del concerto. “I got Rhythm Variations” sono delle variazioni per pianoforte e orchestra elaborate da Gershwin su una canzone – composta dal fratello maggiore Ira – che sta alla base di molta musica jazz e che abbiamo ascoltato da innumerevoli cantanti (Ella Fitzgerald per citarne solo una!) e anche in diversi film (indimenticabile la performance di Gene Kelly in “Un americano a Parigi”). La Rapsodia in Blu è forse il capolavoro più famoso di Gershwin, composto a soli ventisei anni. Si tratta di un meraviglioso connubio di musica classica e jazz per pianoforte e orchestra, che alterna momenti improntati ad un ritmo trascinante ad altri di carattere sognante e romantico. Gilda Buttà, grande pianista messinese, specializzata nell’esecuzione di colonne sonore cinematografiche, non può che trovarsi a suo perfetto agio nell’interpretare la musica di Gershwin, ed infatti l’esecuzione, a volte un po’ rallentata probabilmente per sottolineare gli aspetti più romantici del brano, è apparsa elegante e raffinata ed è stata molto apprezzata dal gremitissimo pubblico (tutto esaurito!). Se la Rapsodia in Blu è forse il brano più conosciuto di Gershwin, sicuramente il Bolero è il capolavoro in assoluto più conosciuto di Ravel, tanto che per molto tempo, e ancor oggi, spesso i non addetti ai lavori identificano Ravel proprio con il suo Bolero. Già ai tempi della sua composizione (1928) il brano – nato per essere danzato su richiesta della danzatrice Ida Rubinstein, ma in seguito eseguito per lo più in forma di concerto – raggiunse una popolarità che nessun altro capolavoro di Ravel aveva mai raggiunto né avrebbe raggiunto in seguito, eppure lo stesso autore, parlando del Bolero, affermò, a chi ne tesseva incondizionati elogi: “Il mio capolavoro? Bolero, disgraziatamente è privo di musica. Il più era trovare l’idea. Quanto al resto qualsiasi allievo di conservatorio avrebbe saputo fare altrettanto”. Ovviamente le cose non stanno proprio così, anche se è vero che è proprio l’idea la carta vincente del brano, cioè il ripetersi di un tema sempre uguale, suonato da gruppi di strumenti che si aggiungono progressivamente. Il Bolero è innanzitutto un capolavoro di orchestrazione che lascia ancor oggi stupefatti. Ravel fa uso di una orchestra molto nutrita, con l’utilizzo anche di strumenti a fiato abbastanza inusuali, come l’oboe d’amore (antico strumento barocco) o il saxofono (proprio della musica jazz). I singoli gruppi di strumenti si aggiungono progressivamente ogni volta che si rinnova il tema: prima i vari gruppi di legni, poi gli ottoni, infine gli archi, con un ritmo ostinato, incantatore ed ossessivo, che rapisce l’ascoltatore fino al “tutti” finale, fortissimo e dissonante, con cui si conclude l’impressionante brano. Il valzer “Sul bel Danubio blu” è uno dei più celebri e amati di Johann Strauss, ricco di temi conosciuti in tutto il mondo, ed eseguito ogni anno come bis nel concerto di Capodanno al Musikverein di Vienna. Nonostante i suoi temi fin troppo orecchiabili e popolari, è un brano amato anche dai cultori più esigenti, tant’è che Johannes Brahms, una volta appose la sua firma a margine di alcune note del valzer scrivendo “Sfortunatamente non di Johannes Brahms”. Dopo un simpatico siparietto in cui Cettina Donato, usurpando scherzosamente il posto del direttore d’orchestra, ha diretto quest’ultima nell’esecuzione di alcune variazioni sul canto natalizio “Jingle bells”, con Giovanni Renzo anche lui “usurpatore” al piano, Marco Alibrando concedeva il tradizionale e atteso bis di Capodanno: la Marcia di Radetzky di Johann Strauss padre. Una signora, peraltro molto simpatica, seduta nella mia stessa fila, obiettava che suonare la marcia in Italia è un vero affronto, trattandosi di Radetzky. In effetti, e sono in molti a pensarla così, ascoltare ed applaudire ogni anno un pezzo che celebra la vittoria dell’esercito imperiale comandato dal conte Radetzky sulle truppe piemontesi (a Custoza) potrebbe sembrare insensato da parte degli italiani. Tuttavia il brano, avulso dal contesto in cui è nato, è sicuramente piacevole e trascinante, ed in più potremmo pensare di accoglierlo con una certa ironia, dal momento che fu persa quella battaglia, ma alla fine le cose andarono diversamente per i nostri cugini austriaci! Pertanto, pur condividendo le obiezioni della simpatica spettatrice, consapevole del significato che quella marcia ha avuto nel lontano 1848, alla fine non ho resistito alla tentazione di battere anch’io le mani sotto la direzione dell’ottimo Alibrando.

L’Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele è apparsa in decisa crescita, cimentandosi con padronanza in questa variegata complessità di brani, che esigono spesso delle performance solistiche insidiose, come l’incipit dell’Ouverture del Guglielmo Tell (violoncello) o, soprattutto, tutti i fiati nel Bolero. Anche se in quest’ultimo brano non è mancata qualche imperfezione nei fiati, è proprio questo il pezzo in cui forse l’orchestra ha dato il meglio nel suo complesso, adottando un tempo abbastanza sostenuto e realizzando mirabilmente quell’atmosfera ipnotica e carica di tensione che un’esecuzione eccessivamente lenta rischia di rendere noiosa. Anche al valzer di Strauss è stato dato il giusto respiro sinfonico, indispensabile per ottenere una esecuzione non “bandistica”. Merito sicuramente anche del direttore messinese Marco Alibrando, che avevamo già apprezzato nella direzione della Pastorale di Beethoven, un direttore, se pur giovane, dalla gestualità controllata, sobria ed elegante, e ci fa piacere apprendere che lo rivedremo presto dirigere la Bohème. Una serata di festa, all’insegna del ritmo, quasi a voler dare una scossa a questa città (quanto ne ha bisogno!), conclusa con un bel brindisi nel foyer, in un teatro che ci auguriamo di vedere così gremito anche negli spettacoli musicali più impegnativi che la stagione ci riserva. Buon anno.

Giovanni Franciò

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