Caso Messina. Una battaglia giudiziaria lunga otto anni

Caso Messina. Una battaglia giudiziaria lunga otto anni

Caso Messina. Una battaglia giudiziaria lunga otto anni

giovedì 10 Gennaio 2008 - 20:11

Giovanni Lembo, magistrato della Dna e Marcello Mondello per anni giudice istruttore e poi gip di Messina vennero arrestati all’alba del 19 marzo del 2000. Gravissime le accuse mosse ai due magistrati. Entrambi, secondo il teorema formulato dalla Procura di Catania, vengono indicati come uomini vicini alla cupola mafiosa che, a cavallo degli anni 80 e 90, gestiva gli affari illeciti a Messina per conto di Cosa Nostra. Un vertice composto dal boss e poi collaboratore di giustizia Luigi Sparacio, dall’imprenditore palermitano Michelangelo Alfano morto suicida due anni fa e dal padrino di Villafranca Tirrena, Santo Sfameni.

Era nella masseria di quest’ultimo, secondo l’accusa dei pentiti, che si sarebbero incontrati magistrati e mafiosi per aggiustare i processi e manipolare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. L’inchiesta dei giudici catanesi parte proprio dalla gestione del pentito Luigi Sparacio ma non coinvolge solo Lembo e Mondello. Con loro i Carabinieri e la Guardia di Finanza arrestano il maresciallo dell’Arma Antonio Princi, all’epoca dei fatti segretario del sostituto procuratore Lembo, indagato per minacce; l’imprenditore Santi Travia, accusato di concorso esterno all’associazione mafiosa; e due collaboratori di giustizia: Cosimo Cirfeta, nato in provincia di Lecce, e Pino Chiofalo il boss della mafia barcellonese poi collaboratore di giustizia. Per i due pentiti l’accusa è di calunnia.

Il sostituto procuratore della Dna, Giovanni Lembo è,invece, accusato di avere sistematicamente agevolato Luigi Sparacio, intervenendo anche con pressioni sugli organi di polizia che gestirono la prima parte della sua falsa collaborazione, per garantargli una quasi assoluta libertà di movimento. Un sistema per consentire a Sparacio, secondo l’accusa, di mantenere rapporti con i suoi uomini e gestire gli affari sporchi. Allo stesso tempo i suoi parenti ed i fedelissimi del suo clan restavano estranei a tutte le inchieste. Sparacio avrebbe condizionato le dichiarazioni di molti pentiti per scagionare la suocera Vincenza Settineri, il fratello Rosario e alcuni uomini di rispetto come Michelangelo Alfano e Santo Sfameni. Lembo, secondo i giudici catanesi, non avrebbe messo a verbale le dichiarazioni di alcuni collaboratori su Alfano e avrebbe raccolto invece dichiarazioni finalizzate a scagionarlo. Accuse acuminate come frecce per un giudice della DNA chiamato a combattere la mafia.

L’imprenditore messinese Santi Travia viene arrestato con l’accusa di aver fatto da mediatore fra Alfano e il sostituto procuratore Lembo. Accuse smontate nel corso del dibattimento. Travia viene assolto sia in primo grado che in appello dall’accusa risultando del tutto estraneo alla vicenda. Il maresciallo Antonio Princi finisce nei guai con l’ accusa di avere minacciato, assieme al sostituto Lembo, il collaboratore di giustizia Vincenzo Paratore. Avrebbero tentato di -convincerlo- ad accusare ingiustamente l’avvocato Ugo Colonna per fargli perdere credibilità. Il legale, infatti, aveva ripetutamente denunciato alla magistratura, al Csm ed all’Antimafia la gestione piuttoso disninvolta di alcuni pentiti e soprattutto di Sparacio, da parte di alcuni magistrati messinesi.

Un intreccio torbido ed apparentemente inestricabile. A Catania viene celebrato un lungo ed estenuante processo con l’audizione di decine di collaboratori di giustizia, appartenenti alle forze dell’ordine, colleghi deidue giudici. Gli imputati respingono tutte le accuse. Si dicono vittime di un complotto, soprattutto da parte dei pentiti o comunque di quei mafiosi che avevano sempre combattuto.

Nell’ottobre scorso però le richieste dei pm Antonio Fanara e Federico Falzone sono pesantissime: 14 anni e 3 mesi di reclusione per l’ex sostituto procuratore nazionale antimafia Giovanni Lembo, 12 anni per l’ex capo dei gip di Messina Marcello Mondello, 6 per Luigi Sparacio, 5 per il maresciallo dei Carabinieri Antonio Princi e due per l’altro pentito Vincenzo Paratore.

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