Il 3 ottobre la PFM è a Messina. "La musica come esercizio alla fantasia"

Il 3 ottobre la PFM è a Messina. “La musica come esercizio alla fantasia”

Emanuela Giorgianni

Il 3 ottobre la PFM è a Messina. “La musica come esercizio alla fantasia”

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martedì 29 Settembre 2020 - 08:13

Il 3 ottobre alle 21,30 la Premiata Forneria Marconi salirà sul palco dell’Arena Villa Dante. Per l’occasione abbiamo intervistato Patrick Djivas, tra sogni, difficoltà, il post Covid e la passione più forte di tutto.

Emblema del progressive rock italiano e internazionale, ma molto di più. Un viaggio tra tutti i generi musicali, passando perfino per il classico, e sempre in una chiave unica. Primi posti nelle classifiche di Stati Uniti, Giappone e Brasile. Adesso finalmente a Messina.

Sono i PFM, la Premiata Forneria Marconi, in scena all’Arena Villa Dante con il loro “TVB – The Very Best Tour”, sabato 3 ottobre alle ore 21,30.

L’evento

La storica band nata nel 1970, discograficamente nel 1971, porterà sul nostro palco i suoi più grandi successi.

Ad incantare tutti i fan saranno Franz Di Cioccio voce e batteria, Patrick Djivas al basso, Lucio Fabbri con violino e chitarra acustica, Marco Sfogli alla chitarra elettrica, Alessandro Scaglione alle tastiere, Alberto Bravin voce, tastiere, chitarra, Eugenio Mori con batteria e percussioni.

100 concerti solo nel 2019 e adesso, dopo lo stop forzato a causa dell’emergenza, si riparte finalmente, e Messina diventa loro protagonista.

Inizia il conto alla rovescia per il grande evento organizzato da Euphonya Management di Dario Grasso, e ne parliamo con Patrick Djivas. Ci parla di musica, di vita, della loro storia, e così come le sue melodie anche le sue parole toccano le corde dell’anima.

L’intervista

Premiata Forneria Marconi, una nome lungo, che porta una storia lunga, perché come affermaste voi “più il nome era difficile da ricordare e più sarebbe stato difficile da dimenticare”. E indimenticabile resterà per sempre. Ma come è cambiata Pfm nel corso degli anni?

“Sono passati quasi 50 anni, tante cose intorno a noi sono cambiate, ma noi non lo abbiamo mai fatto. Non abbiamo mai cambiato il nostro modo di affrontare il mestiere, di fare musica, di sperimentare cose nuove come nei dischi che facciamo. Noi siamo musicisti prima di tutto e, fortunatamente, siamo nati in un periodo durante il quale per diventare musicista non c’erano metodi o scuole, dovevi averlo proprio nel cuore, dovevi trovare la musica in tutto, ascoltare ogni cosa. Questo ha fornito ad ognuno di noi, anche individualmente, la curiosità di ricercare, la voglia di non fermarci ad un genere solo. Ci hanno dipinto come un gruppo rock progressivo, forse all’inizio, per i primi due album, ma dopo abbiamo fatto di tutto e di più, dal classico al jazz, fino alla musica di De Andrè, sempre con la stessa mentalità: fare meglio di ciò che eravamo in grado di fare. L’unica cosa che conta davvero è fare sempre meglio, non è più difficile che fare male, è solo un approccio diverso.

Intorno a noi, poi, tutto è cambiato, la musica da essere protagonista è diventata solo un elemento di accompagnamento, legato alla tv, a internet, non è più centrale come una volta. Noi, invece di andare al cinema, andavamo ad ascoltare musica a casa, si ascoltavano i dischi per ore e se ne parlava. La realtà è diversa ma noi no”.

Allora è proprio questo il segreto per quasi mezzo secolo di successo internazionale? Continuare a voler fare di più, restando coerenti a ciò che si è?

“Sì, proprio questo è il nostro segreto. Abbiamo, però, avuto una grande fortuna. Il nome PFM è come un astronave sopra di noi, è il vero protagonista della storia, noi siamo i suoi adepti e dobbiamo stare attenti, perché è un nome troppo esigente, non ti lascia scappare con nulla che non sia alla sua altezza. Fa parte del nostro modo di essere fare sempre di più e volere sempre di più, ogni disco è diverso dal precedente perchè dipende dalle esperienze del momento. In America, per esempio, passavamo molto tempo con musicisti americani nostri amici, e la loro amicizia ci influenzava con la sua forza, facevamo dei dischi complicati dal punto di vista tecnico e musicale. Durante le tantissime tournée i dischi sono, invece, più immediati, più veloci, tra lo studio e il live, per non parlare della nostra mezza follia con la musica classica”.

PFM in Classic” è stato un esperimento di enorme successo. Come avete fatto?

“Accadeva già che la musica classica venisse eseguita in chiave rock, semplicemente suonandola con le chitarre elettriche. Noi abbiamo stravolto le cose, abbiamo fatto il contrario. Da Mozart a Celebration, abbiamo interpretato la musica dei grandi autori classici aggiungendo quello che loro avrebbero fatto se avessero avuto gli strumenti che avevamo noi. Non abbiamo cercato di rendere le melodie più attuali, ma qualcosa di più difficile, abbiamo composto proprio la musica. È stata una follia, ma l’esperienza di tutti gli anni passati sul palco a conoscere gente diversa e ad ascoltare musiche diverse ci ha dato la fiducia per affrontare tante prove, come anche l’incontro con Fabrizio. Abbiamo messo tutta la nostra capacità al servizio delle sue meravigliose canzoni, e con successo, diversamente da quanto pensava tutta la discografia del tempo”.

Il vostro incontro con Fabrizio De André, infatti, il rock che incontra la poesia, ha fatto la storia della musica italiana. Sembrava difficile far incrociare due realtà così distanti, ma voi siete andati in “direzione ostinata e contraria”, dimostrando il contrario. Come è nato tutto?

“È nato per caso, avevamo già collaborato una volta negli anni 60, quando Fabrizio fece “La buona novella”. Ai tempi, quando ci chiamavamo Quelli, facevamo molte collaborazioni per i dischi degli altri, ma eravamo semplicemente interpreti di ciò che veniva già arrangiato. Lo abbiamo fatto anche con Battisti, con Celentano, e poi con Fabrizio. In quell’occasione, però, Gian Piero Reverberi, grande arrangiatore di De André, aveva già capito ci fosse qualcosa in noi di interessante da tirar fuori.

Dopo molti anni, nel ‘78 noi tornavamo dall’America e suonavamo in Sardegna, dove De André aveva casa, affascinato dalla bellezza di quella terra. Quando ha saputo che saremmo stati non troppo distanti da lui è venuto subito al concerto. Nei camerini abbiamo riso insieme, ci siamo ricordati del nostro primo incontro e ci ha invitato a pranzo da lui il giorno dopo. È stato un tipico pranzo domenicale da film, ci siamo divertiti davvero e in mezzo queste chiacchiere gli abbiamo detto: “certo che sarebbe bello fare una cosa insieme!”. Noi venivamo dall’America e avevamo una visione delle cose molto diverse, lì era normale far incontrare il rock con il cantautorato, qui nessuno aveva ancora mai osato farlo.

Ai tempi Fabrizio aveva un contratto che lo costringeva ad uscire con un nuovo disco, ma era per lui una croce e non aveva nessuna intenzione di suonare ancora dal vivo. Sembrava per entrambi una follia, tutti ci andavano contro ma abbiamo deciso di farlo comunque e ci ha entusiasmato sempre più. Certo, non immaginavamo avesse questa portata, ma sapevamo sarebbe stato un bel lavoro.

Iniziamo, così, una grande avventura che non è ancora finita, ultimo esempio il film del 2020”.

Cosa è cambiato in voi nell’era del post Covid? Come è tornare sul palco?

“Stare sul palco per noi è come per un pesce stare nell’acqua. Abbiamo fatto 6 mila concerti nella nostra carriera e, nel momento in cui siamo sul palco, dimentichiamo tutto il resto. I nostri primi tempi in America ed in Italia rendevano ogni concerto un’avventura, il mestiere non era ancora ben messo a fuoco, avevamo problemi con la luce, con la corrente. In America siamo passati attraverso esperienze molto forti in condizioni assurde, per esempio quando aprivamo i concerti al gruppo texano ZZ Top. Dovevamo suonare per 20 minuti soltanto, un giorno, poi, il gruppo ha un incidente in macchina, nulla di grave, ma non può arrivare in tempo. La gente era già dentro, per questo il promoter ci propone di fare noi il concerto. Un conto era suonare qualche brano, un altro eseguire un intero concerto, non sapevamo come il pubblico potesse reagire, ma è andata davvero bene.

Ne abbiamo viste e ne abbiamo fatte di tutti i colori, non è il covid che ci sposterà da questo, ovviamente va affrontato tutto con le dovute cautele e protezioni, ma speriamo possa risolversi presto. È importante parlare di chi ha passato l’inferno, è un’esperienza che ci riguarda tutti, conoscerla ci serve per mandare avanti il mondo in modo magari un po’ diverso da prima, forse troppo esagerato e garibaldino. Spero che questa tragedia possa, malgrado tutto, fare qualcosa di buono, creare una mentalità nuova ed una nuova presa di coscienza di chi siamo, che è veramente poca cosa, se un essere da niente, qualcosa di invisibile, può mettere in crisi migliaia di anni di storia, di tecnica, di progresso. Forse non abbiamo ben capito ancora chi siamo e cosa possiamo e dobbiamo fare”.

Per voi la musica ha sempre un valore preciso, un peso sociale. Che messaggio può dare in questo momento?

La musica è stata molto importante nel lock down. Non la musica come industria, quella ha subito una grande battuta d’arresto, noi artisti e tutti quelli che girano intorno a questo mondo, tecnici e strutture organizzative, vivono una situazione difficile, non siamo stati presi in considerazione.

Ma da sempre, e indipendentemente dal Covid, il nostro è un mestiere strano, sin da quando ero ragazzo e alla tipica domanda “cosa fai nella vita” io rispondevo “sono un musicista”, e allora precisavano “sì, ma cosa fai per lavoro?”
Una mentalità vuole far credere che l’artista non sia un lavoro perché non dà nulla, quando in realtà dà moltissimo. Questo periodo l’ha dimostrato ancora una volta.

La musica ha aiutato tutti, tanti ragazzi in condizioni difficili e tanti musicisti, rimasti forzatamente a casa, che hanno studiato e lavorato. Ho incontrato tante persone, mi hanno mostrato i loro progressi e ci sono stati davvero dei passi da gigante. Speriamo adesso che tutto possa tornare alla normalità e i ragazzi possano riuscire a mettere in pratica quanto imparato.

Anche se la musica, soprattutto in Italia, sta vivendo una crisi, non passeggera; il nostro lavoro non viene più retribuito.

Da ragazzo immaginavo di sposarmi e di avere un figlio che, qualora avesse voluto diventare musicista, avrei guidato in tutto, spiegandogli cosa fare e cosa no, per partire con il piede giusto. Se avessi un figlio adesso mi guarderei bene dal consigliar lui di fare il musicista, è davvero dura, ma non mi priverei mai del dirgli “divertiti a fare musica”. La musica è prima di tutto passione, la musica è un’esperienza formativa incredibile, ci permette di organizzare la fantasia. Creatività e organizzazione sembrano non andare d’accordo, ma la musica è l’unica a fornire una struttura all’immaginazione. In musica non esistono due note che non abbiano regole, devi essere in grado di organizzare ogni cosa senza perdere mai la spontaneità. È una scoperta bellissima e d’enorme aiuto nella vita.Quello che per me è importante è non smettere mai di fare musica, perché è troppo bello”.

Cosa dobbiamo aspettarci dal concerto del 3?

“Ogni concerto è diverso, ha la sua storia, noi saliamo sul palco senza computer, senza strutture, ogni concerto è fatto di improvvisazione, ogni cosa succede al momento.

Dal punto di vista della scelta musicale porteremo la nostra storia, i suoi vari periodi, dai primi anni americani fino a Fabrizio, c’è tutto quello che ci è successo, compresa quella improvvisazione che è ciò cui teniamo di più, anche come approccio all’interpretazione dei brani, che si modifica sempre. Se c’è un altro segreto per la nostra longevità sul palco è non aver mai fatto due note uguali, tutto cambia ogni sera, si aggiunge, si toglie.

Il mio basso, poi, mi permette di fare davvero ciò che voglio. Anche io mi aspetto tanto, faremo come sempre il massimo”.

E cosa vi aspettate da Messina?

“Sono sicuro che anche il pubblico darà il massimo. Sono molto felice di essere a Messina, perché ho qui tantissimi amici, li ho sentiti e so che verranno dal pomeriggio a vederci. Sono molto amico di Togo, il noto pittore, che è nato a Milano, ma ha passato qui a Messina la maggior parte del suo tempo, ho passato per tanti anni ogni estate a casa sua, per cui ho qui tanti ricordi piacevoli”.

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