"La Calabria ha ben reagito all’emergenza, ma un’epoca si è chiusa"

“La Calabria ha ben reagito all’emergenza, ma un’epoca si è chiusa”

Dario Rondinella

“La Calabria ha ben reagito all’emergenza, ma un’epoca si è chiusa”

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mercoledì 08 Aprile 2020 - 20:33

Come sempre è accaduto nella storia, dopo i periodi turbolenti arriva il momento delle proposte politiche

Nella sua lunga storia, il popolo calabrese ha superato carestie, terremoti, pestilenze e ogni sorta di maledizione. Il terremoto del 1783, ad esempio, nella parte centromeridionale della regione sconvolse letteralmente l’ordine della natura, distruggendo interi centri abitati e provocando decine di migliaia di morti, soprattutto nel vibonese e nei paesi del litorale tirrenico reggino.

La popolazione di allora si ritrovò in una situazione sociale ed economica a dir poco disastrosa: la perdita delle case, dei campi, dei raccolti e dei frantoi portò a una vera e propria lotta per la sopravvivenza; le plebi si scagliarono sui beni dei ricchi per soddisfare bisogni immediati e consumare antiche vendette; per decenni si visse in un clima di generale confusione che diede adito ad alcuni di reclamare terre mai possedute e ad altri di appropriarsi dei beni delle famiglie annientate dal sisma; le salme di molte vittime vennero bruciate per evitare il diffondersi di gravi epidemie.

L’ambasciatore tedesco Friedrich L. von Stolberg, amico di Goethe e amante come lui dei viaggi, al termine di un itinerario compiuto nel 1792 attraverso una Calabria ancora segnata dalla miseria, a distanza di quasi un decennio da quell’evento, scrisse che questa parte di mondo “è il centro del fuoco sotterraneo” e “reca nel cuore un gigante, le cui convulsioni scuotono tanto spesso la terra”. I disastri, nel corso dei secoli, hanno forgiato il carattere dei calabresi alla proverbiale diffidenza e a un pessimismo a tratti “cosmico”, ma l’hanno anche fortificato sulla base di una fiducia nelle proprie risorse e una capacità di far da sé.

È capitato spesso ai calabresi di sfidare il destino avverso smentendo chi, di volta in volta, li voleva disorganizzati e spacciati, proprio come accade in queste settimane di emergenza dovuta alla pandemia da coronavirus. Il carattere coriaceo, unito a un sempre più maturo senso civico, ha permesso ai calabresi di reagire all’iniziale allarmismo, a tratti smisurato e quasi isterico, sulla mancanza di reparti di terapia intensiva e posti di rianimazione. Un allarmismo fomentato anche a livello istituzionale, come se tra le centinaia di politici e amministratori, deputati, senatori, parlamentari europei, consiglieri e assessori regionali, alcuni dei quali seduti da decenni sulle rispettive poltrone, nessuno si fosse mai accorto che negli ospedali calabresi sono state smantellate o non sono mai state costruite strutture sanitarie di quel tipo, insostituibili nei periodi di emergenza-urgenza sanitaria.

La Calabria stavolta è stata tutelata dalla sua marginalità geografica e dal conseguente numero limitato di contagi, dovuto unicamente alle ripetute e mal gestite ondate di rientri dalle zone “rosse” del Nord, ma il sistema ha comunque tenuto grazie al senso di responsabilità della gente, che è più apprezzabile se si tiene conto della pressoché totale mancanza di mezzi e la palese improvvisazione politica nelle stanze del governo centrale. È il momento delle riflessioni, è vero, ma possibilmente al riparo della retorica statalista che monta sull’onda della tragedia insieme alla tendenza a riaccreditare tesi filo-collettivistiche di un improbabile e antistorico ritorno allo stato accentratore, onnicompetente e assistenziale.

Viviamo in un’area depressa del Paese, come ce ne sono in tutti i paesi del mondo, anche in quelli più evoluti, per motivi storici, geografici, culturali, ecc., ed è vero che quando lo Stato è costantemente presente la depressione economica più difficilmente si trasforma in degrado. Ciò, tuttavia, non implica l’automatismo per cui lo Stato debba identificarsi con un potere paternalistico che ci tiene per mano, accompagnandoci dalla culla alla tomba, realizzando per noi i nostri piani di vita e privandoci, di fatto, della libertà. Lo Stato può anche limitarsi a mero dispensatore e coordinatore di servizi essenziali, ma a tutela, e non ad intralcio, delle nostre scelte e della nostra autonomia.

Uno dei problemi irrimandabili, su scala sia nazionale che locale, sarà inevitabilmente quello legato al rilancio di una sanità mista pubblica-privata che funzioni grazie al mantenimento di eccellenze complementari, che pure ci sono, e alla creazione di nuove realtà sanitarie. Una sfida importante, per quanto attiene all’ambito pubblico, riguarderà la realizzazione di centri di ricerca e dipartimenti universitari che, senza sovrapporsi, siano in grado di competere territorialmente e istituzionalmente sulle prestazioni offerte, naturalmente assicurando i servizi minimi di pubblico soccorso all’interno di un indispensabile sistema di controlli.

Ma quando si uscirà dall’emergenza, si dovrà anche prendere atto del fatto che un’epoca si è chiusa e che un certo tipo di Stato è fallito, finanziariamente, prima ancora che istituzionalmente. Ciò non solo per il continuo moltiplicarsi, pure in presenza di uno stratosferico debito pubblico, di regole e spese ormai insostenibili, ma anche per l’inadeguatezza di istituzioni concepite nella società del 1948, che necessiterebbero di una rivisitazione prudente, ponderata, impermeabile al più becero populismo eversivo, ma sostanziale, che soprattutto registri le profonde innovazioni nel frattempo intervenute e avvii processi condivisi di riformulazione su nuove basi della nostra convivenza civile, a tutte le latitudini. Come sempre è accaduto nella storia, dopo i periodi turbolenti arriva il momento delle proposte politiche. Si tratterà anche stavolta di guardare al futuro, evitando di volgere lo sguardo nostalgicamente a un passato politico e istituzionale che non tornerà più.

Spartaco Pupo            

(Docente di Storia delle dottrine politiche – Università della Calabria)

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