Operazione Beta: ecco perché le condanne dei Romeo e degli affaristi

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Redazione

Operazione Beta: ecco perché le condanne dei Romeo e degli affaristi

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giovedì 24 Giugno 2021 - 07:00

Le parole dei giudici contro il "mondo di mezzo" di Messina, tra nuovi mafiosi e affaristi

Contro la cupola affaristico-mafiosa che si spartiva i business delle costruzioni e dell’immobiliare a Messina, condannata al processo Beta- ci sono le prove. Ci sono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ci sono una montagna di conversazioni, de visu e al telefono, intercettate dagli agenti. Ci sono i riscontri nelle carte sequestrate e analizzate.

Lo spiega il Tribunale di Messina nelle oltre 400 pagine di motivazioni della sentenza emessa a dicembre scorso per gli imputati che avevano optato per il rito ordinario. Tra loro, le clamorose condanne a 14 anni per l’avvocato Andrea Lo Castro, a 13 anni per il costruttore Carlo Borella- ex presidente Ance- a 16 anni per Francesco Romeo, considerato il capo della cellula mafiosa messinese dei clan catanesi Santapaola-Ercolano. Condannato anche Biagio Grasso, il “faccendiere” di Borella e dei Romeo che dal giorno dell’arresto ha cominciato a collaborare con la giustizia, diventando il principale accusatore della “cupola”.

La Prima sezione penale del Tribunale (presidente Silipigni), spiega il verdetto partendo proprio da Grasso, ritenuto credibile fino in fondo, per quel che riguarda i fatti al centro di questo processo. Le sue dichiarazioni hanno confermato quello che i Carabinieri avevano già scoperto, e sono state confermate a loro volta dalle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, in particolare dagli ex boss pentiti barcellonesi e catanesi.

Ma cosa aveva svelato Grasso? Il “geometra” rientrato dal Venezuela venti anni fa e tornato a lavorare nella zona tirrenica del messinese, ha parlato di un vero e proprio “triumvirato” formato da Romeo, Lo Castro e Borella, che proprio lui ha fatto incrociare, nel corso delle intricate vicende societarie del costruttore. E’ stato lui, ha svelato, a convincere i Romeo a “tuffarsi” nel mattone.

IL RUOLO DI LO CASTRO

Il resto, a sentire Grasso, lo ha fatto l’avvocato Lo Castro, che con i Romeo aveva solidi rapporti. Per l’Accusa, e per i giudici che lo confermano nelle motivazioni della condanna, Lo Castro “…è il consigliori dell’associazione, è punto di riferimento costante ed indiscusso dell’associazione, nelle sue massime esplicazioni soggettive, professionista privo di scrupoli che con pervicacia e presunzione ha messo il proprio elevato ruolo a disposizione del sodalizio del quale ha condiviso, sia pure ab externo, obiettivi, finalità e ideali. La figura del Lo Castro, così rassegnata, si incastra perfettamente con la nuova struttura della mafia, lontana per certi versi ormai dai canoni tradizionali, che persegue l’ambizioso fine di penetrare nel tessuto economico ed imprenditoriale lecito mediante stratagemmi e modalità illecite finemente architettati.

Contro il legale, spiegano i giudici, ci sono “…contegni che, pur non integrando di per sé autonome fattispecie penalmente rilevanti, risultano estremamente sintomatiche e significative di una contiguità dell’avvocato lo Castro all’associazione mafiosa dei Romeo”

IL CLAN ROMEO DI MESSINA

E che i Romeo siano mafiosi, spiegano ancora i giudici, non ci sono dubbi. E non soltanto perché sono i nipoti di Nitto Santapaola, né perché continuano a frequentare assiduamente i familiari catanesi, occupandosi anche del sostegno dei familiari dei carcerati. Sono loro stessi a dirlo, nelle conversazioni “spiate” ai carabinieri. Sono le vicende monitorate dagli investigatori a raccontarlo, sono gli affari che hanno trattato e come li hanno trattati. E ci sono, ancora una volta, le dichiarazioni dei pentiti.

Che i Romeo e i cugini Santapaola di Messina fossero i referenti del clan catanese lo hanno infatti confermato i barcellonesi – Carmelo e Francesco D’Amico per primi – ma anche gli stessi collaboratori catanesi, che parlano di una “pignatta” – la cassa comune – in cui confluivano i proventi delle estorsioni alle imprese che lavoravano a Catania o a Messina, nelle zone controllate direttamente dalla famiglia.

Significativa in questo senso il racconto di Melo Bisognano, l’ex capo dei mazzarroti, che racconta di aver sistemato, grazie all’intermediazione dei Romeo, i problemi che un costruttore della zona – scomparso da qualche anno e anche lui condannato per mafia – aveva avuto con i catanesi mentre era impegnato nei lavori all’ospedale Piemonte, a metà degli anni ’90.

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