Daniela Cucè Cafeo: Emozioni da un workshop, a Messina c'è tanto, tocca a noi

Daniela Cucè Cafeo: Emozioni da un workshop, a Messina c’è tanto, tocca a noi

Daniela Cucè Cafeo: Emozioni da un workshop, a Messina c’è tanto, tocca a noi

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venerdì 20 Aprile 2018 - 07:03

"Dobbiamo uscire da sotto la trave dove ci siamo rifugiati. Non è vero che a Messina non c'è niente....", ecco cosa scrive Daniela Cucè Cafeo a margine del workshop con l'artista Francesco Ferla

Ho il privilegio di conoscere Gabriella Sorti, presidente ed anima di Art Revolution. In questi ultimi anni mi è capitato di ricevere inviti a decine di eventi ed a nessuno ho detto sì. Ma Gabriella mi manda su whatsapp l’invito ad un workshop di fotografia architettonica con un certo Francesco Ferla e m’incuriosisco.
Denuncio subito la mia ignoranza: non conoscevo questo architetto maestro dell’arte fotografica o, come preferisce definirsi, concepteur. Così mi documento, cercando la sua pagina facebook. Resto affascinata, soprattutto dalle sue composizioni a luce pittorica, ma anche tutto il resto del suo articolato lavoro mi cattura.
C’è l’occasione di averlo a Messina, connessa alla possibilità di vedere luoghi di questa città con l’occhio del turista affamato di bellezza e di cultura. E, parolina magica, gratuitamente.
Dopo qualche anno di isolamento rispetto agli eventi culturali in questa città, sento che a questo devo dire sì.
Per l’occasione acquisto la mia prima reflex, che ovviamente non so usare, ma non importa, imparerò, facendo leva solo sul mio istinto e sul desiderio di apprendere. Il workshop parte con un’introduzione teorica di Francesco, che si tiene all’Ordine degli architetti.
Al mio arrivo m’imbatto in Lucia, ci sediamo accanto e ci sintonizziamo subito l’una sulle frequenze dell’altra, tanto che sentiamo nello stesso momento il bisogno di condividere un caffè. Lei si alza e va a farlo, la lezione incomincia.
Abbiamo sbagliato a sederci nelle file dietro, e dopo poco ci alziamo, lei da un lato, io dall’altro della sala, finendo per seguire il resto della lezione in piedi, completamente rapite da quanto Francesco va illustrando sul suo modernissimo metodo di lavoro. Bevo ogni singola parola, e mi ritrovo concentratissima come non riuscivo ad essere da un po’.
Nel pomeriggio inizia il tour dei principali luoghi d’interesse architettonico della città, e per due giorni, con orari serratissimi, saltiamo da una chiesa all’altra, scoprendole come mai avevamo fatto finora. Come fosse realmente la prima volta, inquadriamo liberamente angoli, capitelli, archi, volte, facciate. Grazie ad un’organizzazione perfetta che coniuga magistralmente luoghi e orari, tempi e bellezze, riusciamo a vedere tanto, ma è impossibile vedere tutto. E come? Ma non sapevamo che a Messina, “peddire, non c’è niente”? E questa scoperta è merito dell’approccio che immediatamente Francesco ci sollecita ad avere.
Bisogna affrancarsi dal sentirsi i reduci del terremoto, quelli che hanno subito una mutilazione e un trauma tali da portare via bellezza, cultura e memoria.
A Messina c’è ancora tanto, e il nostro compito, ma più ancora quello delle istituzioni e dei protagonisti della cultura, del turismo, del recupero, è quello di non fossilizzarci su ciò che era prima di quell’alba del 1908, ma su ciò che è adesso. Valorizzando. Esaltando. Portando fuori le luci dalle ombre di un secolo di chiusure e di rifiuto dell’accettazione di un evento che, per quanto catastrofico, qualcosa ha lasciato. E direi più di qualcosa.
Continuiamo a snocciolare siti e chiese e il tempo scorre dando sensazioni strane, contrastanti: e mentre sembra fermarsi in una dimensione avulsa dalla realtà, in una sorta di bolla nella quale ciascuno di noi rimane contenuto e libero ad un tempo, così sembra anche volare, e ci si ritrova velocemente a salutarsi per darsi appuntamento ad una, due ore dopo, per un nuovo giro in cui siamo ancora tutti insieme ma ciascuno è un mondo a sè, con la propria creatività, il proprio personalissimo modo di leggere e d’interpretare la bellezza che ha di fronte.
…Ho scritto “di fronte”? E no, sono stata imprecisa.
Perché in realtà siamo stati protagonisti di un quadro d’insieme surreale, in cui, all’interno di ogni singolo sito, si potevano intravedere corpi distesi, accosciati, inclinati, in equilibrio improbabile su una gamba sola, a cercare l’angolo, lo scorcio, l’inquadratura diversa, personale, singolare. A cercare di scovare la bellezza ovunque diamine si annidasse. E poi ci sono stati i momenti di autentica magia. Ci aprono le porte della Cattedrale, ci siamo quasi solo noi, sguinzagliati come cagnolini felici al parco, e d’improvviso partono le note del meraviglioso organo del Duomo che potentemente spara un Bach che, manco a dirlo visto il luogo in cui ci troviamo, ha del divino.
Il sacerdote che ce lo regala si lamenta del fatto che può usare solo il 60% del meraviglioso strumento.
…Ma davvero?! E io che credevo quello fosse già da solo il Paradiso…
E a proposito di Paradiso, la nostra scalata verso la bellezza termina, in un crescendo e in un’ascesa verso l’alto che non è solo metaforica, ma anche fisica, con la visita del cimitero monumentale, guidati dall’esperto Franco Maggio che conosce ogni angolo, ogni storia, ogni frammento di questo luogo magico, e che li avrà raccontati centinaia di volte ma che non ne sembra affatto stanco.Scopriamo il famedio, il cenobio, le splendide statue di raffinati scultori che hanno fissato per sempre, spesso utilizzando una simbologia affabulante, quelle vite ormai perdute, quelle storie vissute spesso troppo poco per non aver lasciato un sentimento forte di qualcosa di sospeso, che rimane nell’aria ad attendere di rivivere grazie ad ogni sguardo che, con rispetto e struggimento, gli si posa sopra.
Avrei voluto rimanere lì dentro per un tempo infinito, finché non fossi satura di quel bisogno di restare, di inquadrare, di respirare, ma ci tornerò presto, questo è sicuro.
Unica nota stonata della quale non posso trattenermi dal fare cenno è l’incuria, l’abbandono, la precarietà in cui versano questi preziosi manufatti, alcuni addirittura in procinto di saltare giù dai basamenti o di smottare dal terreno su cui, quasi per miracolo, ancora si reggono.Gli scempi perpetrati dai tombaroli, che in un terreno fertile di mancanza assoluta di custodia, hanno mozzato teste, staccato fregi, saccheggiato cappelle.
Una tristezza, tanto più che se ci lamentiamo tanto di tutto ciò che ci ha portato via il terremoto, non comprendo perché non abbiamo alcuna cura di ciò che ha risparmiato. È con questa punta di rammarico che ci salutiamo per la penultima volta, dandoci appuntamento al Salone delle bandiere per la parte conclusiva, la lectio magistralis di Francesco. Che, detta così, sembra una cosa pesante e noiosissima. Ma non quando un argomento è in mano a lui.
La cosa sorprendente di quest’uomo è che, da buon architetto e costruttore di progetti, conosce perfettamente lo “spazio” dell’attenzione della platea.E lo rende vivo, dinamico, mai troppo didattico, a tratti veramente divertente.
Un mattatore, mi dico.Uno di noi.Uno che non ci ha fatti sentire niente di diverso da quello che siamo.
Che ci ha insegnato tecniche lasciandoci liberi anche di fregarcene e di fare come meglio ci piacesse.
Che con noi ha scherzato e ha giocato, e che ha lavorato dandoci l’impressione che stesse facendo solo le prime due cose. Un’esperienza veramente densa, insomma.
Della quale non finisco di ringraziare gli artefici: Gabriella Sorti, Tina Berenato, Maria Teresa Anastasi, Filippo Grasso, Fabrizio Ciappina, il team tutto che ha collaborato con Art Revolution per farci vivere questo intenso momento di recupero della consapevolezza della nostra città. Ora non abbiamo più scuse.
In questo solco così abilmente tracciato, dobbiamo seminare e far crescere la buona volontà di andare oltre il nulla e l’abbandono in cui abbiamo finora vissuto.La terra ha finito di tremare ormai più di un secolo fa.
È ora di uscire dal riparo delle travi sotto cui ci siamo rifugiati. Di abbandonare la paura di guardare le macerie.
Di rinnamorarsi di sè e andare incontro a quella rinascita che non possiamo più permetterci soltanto di vagheggiare perché dev’essere qualcun altro a garantircela. Perché il compito, arduo o semplice che sia, è il nostro.
Francesco Ferla ci ha svegliati. Ora tocca a noi.
Daniela Cucè Cafeo

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