Evasioni dal palco: “SU-A” di Marika Pugliatti al Teatro dei Naviganti

Evasioni dal palco: “SU-A” di Marika Pugliatti al Teatro dei Naviganti

Gabriele Blundo Canto

Evasioni dal palco: “SU-A” di Marika Pugliatti al Teatro dei Naviganti

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lunedì 16 Febbraio 2015 - 11:14

Il lavoro sull’attore declinato in un’opera intensa, viva e straziante: un urlo di benvenuto, il buio in cui si rincorrono voci sussurranti, l’eterno gioco di specchi tra palco e platea.

Si narra che Pasolini, nei giorni prima della morte, avesse deciso di farsi fotografare nudo nella quotidianità di casa propria; Alda Merini realizzò un analogo progetto con un amico fotografo, da cui è nato un libro di ironica delicatezza: l’ostentazione del corpo, o meglio, la sua ostensione, ha qualcosa di sacro, anche quando vuol essere dissacrante; ha qualcosa di candido e santo, anche quando a qualcuno può sembrare volgare. Il celebre Hillman, allievo di Jung, riteneva che in questo ci fosse qualcosa da riscattare, e Maria Zambrano, filosofa spagnola non meno legata agli archetipi, amica di quella pittrice Maruja Mallo che un bel giorno decise di correre nuda in una chiesa fino a toccare l’altare ed uscirne, parlava di discesa agli inferi, e di trovare un modo per saper dire l’impuro.

Non so se tutto questo abbia a che vedere con l’operazione di Marika Pugliatti, con il rito che celebra offrendosi anima e corpo a un pubblico breve e partecipe. Si viene accolti dal suo urlo di benvenuto, dal suo invito a entrare nel suo serraglio di domatrice di belve. E la belva – la sua, la nostra – è protagonista assoluta del suo lavoro, biografica denuncia che si pone su un filo tagliente, quello che sta tra l’ipocrisia che cela e maschera, e la capacità di guardarsi in modo radicale, attrice e spettatori, e di sentirsi. Per questo la caduta di ogni sipario, fino all’espressione del bisogno affettivo (“vuoi essere mia mamma?”); per questo le gambe nude che si muovono a ritmo di bassi; per questo il buio in cui sussurrano voci per sperimentare il gioco del sentirsi e del vedersi. E gli specchi, e la macchia linguistica. Vedetemi e vedetevi nella bestia che siamo, sembra dire Marika con il suo testo denso di riferimenti e citazioni, e ditemi se non vi rispecchiate in questo gesto di denuncia e liberazione, di offerta e trattenimento del sé, come sull’orlo di un precipizio in cui si vorrebbe e non si vorrebbe cadere, in un cupio dissolvi che si esaurisce e si spande, infine, nella costruzione della maternità di un pubblico, che a Messina si è esposto in modo discreto e consono alla misura smisurata del testo.

L’aceto, si diceva una volta, ha la sua mamma. E far comprendere come la costituzione dell’artista dipenda, derivi, anche dal pubblico è un gioco complesso e intrigante su cui Marika, con irriverente riverenza, sa fare pensare, scappando da ogni parte della sua sottana.

Gabriele Blundo Canto

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