"Troppe donne ancora vittime di violenza"

“Troppe donne ancora vittime di violenza”

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“Troppe donne ancora vittime di violenza”

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lunedì 12 Dicembre 2022 - 08:30

La penalista Raffaella Marmo riflette sui cambiamenti necessari in campo giuridico e culturale per tutelare chi è più fragile

Pubblichiamo una riflessione di Raffaella Marmo, avvocata penalista che, da oltre ventiquattro anni, difende vittime di violenza sessuale, di maltrattamenti in famiglia, di abusi (reati compiuti spesso sui minori) e di atti persecutori che, talvolta, possono sfociare in omicidi. L’articolo è stato in precedenza pubblicato sul sito “Menti in fuga”.

Tante storie e tanti volti mi passano come un film nella mente e nel cuore, legati a tanta sofferenza, paura e dolore ma anche a momenti di vera rinascita, direi di liberazione e, paradossalmente, pure di gioia. Senza dubbio nel corso di questi anni di professione, mi sono confrontata con importanti modifiche legislative volte, almeno nell’intento del legislatore, a sostenere e a tutelare più efficacemente le vittime e, in primis, le donne.

Attenzione a tutte le vittime

Preferisco parlare di vittime, e non solo di donne, non certo per dare meno importanza a quello che è sotto gli occhi di tutti, e cioè che sia proprio il mondo femminile a pagare di più e a essere colpito maggiormente da condotte violente. Ma perché non mi voglio dimenticare che la mia attività professionale, nel corso del tempo, è stata volta anche ad assistere e a tutelare uomini, talvolta fragili perché anziani o vulnerabili perché disabili o maggiormente colpiti per il loro orientamento sessuale, nonché ad assistere e tutelare bambini, vittime di abusi e condotte violente o comunque vittime per il fatto di aver dovuto assistere, loro malgrado, ai delitti che si sono consumati e che spesso hanno colpito le loro madri o sorelle.

Con riguardo alle sopra citate modifiche legislative, anche se sinteticamente, dobbiamo ricordarci che in questi anni, ad esempio, si è affermato il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona, che viene coartata nella sua libertà sessuale, e non contro la morale pubblica e che le molestie sessuali sono state configurate come vere e proprie violenze sessuali con sensibile inasprimento delle pene (1996). È stato introdotto il reato di atti persecutori, il cosiddetto stalking (2009), rendendo illecite condotte in passato difficilmente punibili.

Inoltre alle vittime è stata concessa la possibilità di richiedere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato indipendentemente dalle condizioni reddituali (2014). E poi, al fine di fornire una risposta ancor più concreta alle violenze sulle donne, e di dare un segnale a quella che si è palesata essere una vera e propria emergenza, è intervenuto il cosiddetto Codice Rosso (2019), una normativa che ha innovato e modificato la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, corredandola di inasprimenti sanzionatori.

Un femminicidio ogni tre giorni: qualcosa continua a non funzionare

Eppure… eppure qualche cosa continua a non funzionare. Anche quest’anno abbiamo registrato una media di un femminicidio ogni tre giorni e io stessa continuo a vedere accorrere al Soccorso Violenza Sessuale e Domestica (SVS-D) della Mangiagalli di Milano, di cui faccio parte e presso cui opero, vittime letteralmente in scacco di fronte a situazioni di violenza, di maltrattamenti, di prepotenza di assoluta gravità e rispetto alle quali le risposte che lo Stato dovrebbe dare, in termini di urgenza e rigore, stentano ad arrivare. Di fronte ai dati e alle statistiche che evidenziano quanti buchi e fallimenti quotidianamente si verificano, una riflessione si impone. Cosa non va? In che cosa stiamo sbagliando?

Le considerazioni potrebbero essere molteplici ma almeno concentriamoci su quelle principali. Il suddetto Codice Rosso, per diretta esperienza professionale, non sempre viene applicato o viene applicato solo parzialmente e con ritardi inaccettabili. Un semplice esempio. Il pubblico ministero, nelle ipotesi ove proceda per i delitti di violenza domestica o di genere, dovrebbe, secondo la nuova normativa, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, assumere direttamente informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato. Il termine di tre giorni può essere prorogato solamente in presenza di imprescindibili esigenze di tutela di minori o della riservatezza delle indagini, pure nell’interesse della persona offesa.

Ma questo, di fatto, non accade quasi mai nella pratica talvolta perché i pubblici ministeri non riescono a farlo per penuria di organico, altre volte perché manca una reale volontà di procedere poiché gli stessi Pm non danno importanza alle segnalazioni, non ritenendole urgenti. Così anche l’audizione della vittima viene prorogata e delegata alla polizia giudiziaria, con esiti in alcuni casi discutibili se non sconcertanti, peraltro non sempre dipendenti dal lavoro della stessa polizia giudiziaria. Si presenta qui un ulteriore problema: non sempre delegante e delegato operano come un vero team o, possiamo dire, come una équipe “vincente”, capace di coordinarsi in modo rapido, efficace e concreto.

Perché tanta resistenza in Italia a utilizzare il braccialetto elettronico?

Un altro esempio: per i reati rientranti nel Codice Rosso sono intervenute modifiche apprezzabili nell’applicazione delle misure cautelari personali. In particolare è stata modificata la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, con la finalità di consentire al giudice di garantirne il rispetto anche per il tramite di procedure di controllo attraverso mezzi e strumenti tecnici nuovi, come l’ormai più che collaudato braccialetto elettronico.

E allora ci si chiede come mai l’Italia, che partecipa ad ambiziosi progetti spaziali, faccia così tanta fatica a ricorrere a un banale braccialetto elettronico, spesso il giusto compromesso tra l’esigenza di evitare gli effetti negativi della carcerazione e, nel contempo, di tutelare l’incolumità della persona offesa. Perché il nostro Paese, dove si è fatto ampiamente e talvolta spregiudicatamente ricorso alle manette e alle carcerazione preventiva (per esempio durante Tangentopoli), o in cui addirittura è stato previsto il carcere per il reato di clandestinità, fino a guadagnarsi una condanna dalla Comunità europea, rispetto alla prevenzione e alla repressione di determinati reati si dimostra così tanto garantista e risponde, non sul piano teorico come abbiamo visto ma concreto, con grande difficoltà e lentezza?

La violenza deve essere fermata

Ricordiamoci che la violenza, tanto più quando è figlia di una vera e propria ossessione, deve necessariamente essere fermata. Bloccarla, spesso, diviene il mezzo, paradossalmente, per tutelare non solo la vittima ma anche il suo aggressore. In altri termini, gli uomini violenti sono spesso persone fragili, vigliacche, che alimentano e fomentano la loro ossessione mettendo in moto un’escalation di condotte che necessitano di essere bloccate in modo fermo, evitando così che degenerino e si attuino comportamenti sempre più gravi, se non addirittura irreparabili come l’assassinio della persona già offesa. A queste mancanze e talvolta a questi “errori” si è assistito e si continua ad assistere anche a Milano, sebbene per tanti aspetti quello che è stato realizzato in questa città possa considerarsi un esempio illuminante per grande parte dell’Italia, dove invece mancano nelle procure pool specializzati e dove le vittime non possono contare sul sostegno di centri antiviolenza che funzionino con competenza e professionalità, così come il sopracitato Soccorso Violenza sessuale e domestica della Mangiagalli.

Allora quel qualcosa che non va deve necessariamente passare anche da un’analisi più ampia e profonda che coinvolge, a parer mio, due aspetti: uno riguarda la nostra società civile vista nel suo complesso, l’altro coinvolge ciascuno di noi.

La nostra società civile non è matura

Se sulla carta sembrano esserci tutti gli strumenti ma non vengono applicati, e non sempre per carenza e per inefficienza dell’organico (è il caso dei già menzionati braccialetti elettronici), vuol dire che ancora la nostra società civile è immatura, ha quasi una sorta di pudore rispetto a questi reati. Talvolta si respira un po’ di paternalismo e si risente di quella formazione cattolica un po’ retriva che porta ad incoraggiare la sopportazione e non la denuncia, che favorisce la vergogna piuttosto che condurre alla verità.

Quante volte mi è capitato che i carabinieri, da “buon padri di famiglia”, abbiano consigliato a donne malmenate e maltrattate di riconciliarsi con i propri mariti o fidanzati e di far ritorno a casa! E, si aggiunga e si sottolinei, che la nostra società civile non ha creato e non sta creando le condizioni perché, concretamente, le donne escano dal loro inferno di violenza in quanto troppo spesso sono dipendenti economicamente dall’uomo.

Le donne costrette a vivere nella violenza

Anche nell’esperienza della Covid sono le donne che hanno pagato di più, perdendo la loro attività lavorativa. E una donna non economicamente indipendente finisce per essere facilmente ricattabile e per non vedere vie di uscita. Allora, una società che davvero vuole sostenere la donna con i suoi figli deve consentirle di non essere costretta a vivere nella violenza perché teme di non potersi mantenere e perché non sa dove andare!

La solitudine delle vittime nelle mura domestiche

E ora arriviamo all’altro punto, quello che riguarda ogni singolo cittadino. Spesso gli abusi sessuali, i maltrattamenti e i femminicidi maturano tra le mura domestiche: anche se fanno più notizia, sono una piccolissima percentuale le violenze sessuali commesse per strada ad opera di sconosciuti. La verità è che le vittime sono spesso accomunate da un grande isolamento e da una frustante solitudine: sono lasciate sole anche perché il loro carnefice tende progressivamente a far loro terra bruciata intorno, ad isolarle in modo che non possano contare su una valida rete di aiuto e di sostegno.

E qui entriamo in gioco tutti noi, che dobbiamo finire di guardare dagli spioncini delle porte, che dobbiamo smetterla di alimentare la nostra morbosità guardando “plastici” in cui vengono ricostruiti i delitti ed essere un po’ più coraggiosi, solidali ed empatici, intervenendo. Non solo nel momento dell’urgenza ma già prima, quando (spesso) tutto è prevedibile ed allorquando possono essere colti segnali importanti di disagio.

E infine, ma non da ultimo, entriamo ancora in gioco tutti noi quando dobbiamo impegnarci a educare i nostri figli a non tollerare atti di violenza, a non metterli in pratica sin da quando sono piccoli, a ribellarsi e a non sopportare silenziosamente. Solo partendo da questa base si potrà davvero pensare di cambiare le menti e i cuori delle generazioni che verranno.

Raffaella Marmo

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