Alla sala "Sinopoli" del Vittorio Emanuele di Messina una versione originale del capolavoro di Dante Alighieri
MESSINA – L’Infernu Parte III –Se la Commedia parla siciliano. Un viaggio riuscito alla riscoperta della Cantica dantesca nella traduzione in vernacolo di Tommaso Cannizzaro.
In Sala Sinopoli del teatro Vittorio Emanuele di Messina, il 26 settembre, alle 18,30, per il terzo incontro tematico, l’attenzione si è concentrata sui Canti13°, 15° e 19° dell’Inferno, anche nella traduzione della Commedia ad opera di Tommaso Cannizzaro, illustre messinese, messa a punto nel 1904, posseduta in doppio esemplare dalla Biblioteca Regionale Universitaria G. Longo di Messina. E così il Canto 13° ha avuto encomiabile resa di Eugenio Papalia, il 15° è toccato a William Caruso e nel finale ha troneggiato Giampiero Cicciò, altresì titolare della drammaturgia e della direzione in generale.
Da plauso la allocazione in Sala in posizione centrale, con possibilità di fruizione della vista sulla città dai balconi all’uopo tenuti aperti; per il resto si sottolinea l’atmosfera rilassata ed empatica al contempo e l’essere gli attori particolarmente avvezzi al contatto con il pubblico e dotati di innegabile maestria, insieme all’accompagnamento musicale che ha segnato l’incipit e poi contraddistinto la chiusa, mettendo il focus anche sui momenti di peculiare pregnanza, con un’esecuzione pianistica delicata e ineccepibile, riferibile al giovane artista Marcello Conti.
Il pomeriggio è così trascorso più che piacevolmente e il pubblico, che ha occupato ogni postazione disponibile, ha manifestato ripetuto gradimento, anche in corso di esibizioni, tributando ovazione finale.
Nella specie, nel Canto 13°, riecheggia la figura illuminata, degna di menzione, del ministro di Federico II di Svevia, Pier delle Vigne, o della Vigna, scacciato dal sovrano a causa delle maldicenze ordite contro di lui, che lo fecero reputare reo di tradimento e lo indussero, per la sua assoluta estraneità rispetto alle accuse mossegli, a togliersi la vita. Proprio quel suo suicidio, germinato da una profonda dignità di fronte agli ingiusti addebiti, è causa della sua dimora post mortem nel secondo girone del settimo cerchio, quello appunto dei suicidi, che Dante (e Cannizzaro, nella pregevolissima traduzione) immagina come inglobati negli arbusti in un inestricabile groviglio.
Il Canto 15° ha quale protagonista Brunetto Latini, maestro del sommo Dante, che a motivo della sua omosessualità, Dante confina- letteralmente parlando- fra i sodomiti, ove hanno trovato posto anche gli eterosessuali rei di devianze in ambito sessuale. Anche in questo frangente, come nel precedente, Dante (e Cannizzaro) esprimono pietas e solidarietà verso la figura di gran valore e in ogni caso eticamente limpida. La pena da scontare per i colpevoli di siffatti misfatti, per la contrarietà formale a costumanze ritenute giuste, è quella di correre incessantemente sotto una pioggia di fuoco nel terzo girone del settimo cerchio.
E infine il nemico dantesco più celeberrimo, quel Papa Bonifacio VIII, che pure dobbiamo annoverare quale creatore del Giubileo cattolico nel 1300, che è evocato quale futuro ospite della terza bolgia dell’ottavo cerchio fra i simoniaci, atteso che è ancora in vita. E sarà proprio Niccolò III, che trovasi già allocato fra i pontefici dannati per aver, in contrasto con il proprio ministero religioso, perseguito strenuamente potere e ricchezza, a preannunciarlo con terrore.
I simoniaci sono condannati a restare a testa in giù, in un buco (“pertuso”), finchè il successivo massimo rappresentante della religiosità cattolica, nel frattempo sopraggiunto, mano a mano, farà sprofondare ancor più giù colui che è posizionato immediatamente sopra: e così se Niccolò III anticiperà l’arrivo già predestinato proprio di Bonifacio, a sua volta Bonifacio VIII subirà stessa sorte a cagione dell’arrivo di Clemente V.
I tre valenti interpreti hanno davvero reso giustizia ai testi a mezzo lettura della Commedia, e nella specie, dei citati Canti dell’Inferno nella traduzione ad opera di Cannizzaro, preceduta volta per volta da una compiuta illustrazione dei versi danteschi in rappresentazione, e focalizzando i passaggi di maggiore impatto, segnatamente, mettendo a confronto la terminologia poetica del Sommo con quella in dialetto siciliano in uso al letterato messinese.
Si è così riusciti nell’intento di restituire magistralmente, con autentica maestria artistica, ogni rispettiva lettura drammatizzata dei Canti reciprocamente intestati, non mancando anche di riprendere, uno ad uno, la parola nel finale, contrassegnato da rispettive appropriate considerazioni.
Gianpiero Cicciò, che ha avuto voce per ultimo, ha narrato un episodio personale sicuramente di grande impatto psicologico: l’artista ha infatti rievocato toccanti vicende che lo hanno visto protagonista in relazione al suicidio di un personaggio amicale per lui importante, vittima dell’Aids e per questo deciso a porre fine alla propria esistenza, per preservare la propria dignità. In particolare una missiva, della quale Cicciò aveva appreso l’esistenza, lasciata per lui nell’ultima dimora, l’Hotel San Giusto di Roma, aveva svelato il sentire di chi aveva ritenuto inappropriato per sé e per i propri cari proseguire quella battaglia con esito già scontato. Proprio tale ultima rievocazione è valsa a conferire uniformità alla bella drammaturgia, con inappuntabile regia, necessariamente essenziale per lasciare spazio alla creatività individuale, talora istrionesca, altre volte misurata. Si vuol significare la ritenuta giustezza dell’operazione condotta, che in questa terza parte ha messo l’accento proprio sul valore della dignità, elemento fondante che, quale fil rouge, ha percorso la performance in trattazione, con riferimento ai dannati come tratteggiati nei canti 13 e 15, e dello stesso Dante, nel 19, rispetto ai pontefici autori di misfatti, verso i quali non mostra cenni di umana partecipazione, per l’essersi con le loro deprecabili condotte posti in contrarietà a principi etici che l’Autore reputa non contrattabili. E anche il salto temporale, più o meno ai giorni nostri, è apparso assolutamente convincente, condividendo l’intento di considerare ad oggi più che mai attuale il messaggio della enciclopedica opera dantesca, che per questo può essere vivificato attraverso giuste rivisitazioni. Non si può che lodare dunque la “mise en scene”, che ha brillantemente avviato la Stagione 25/26 della sezione, ove è inserita, dell’E.A.R. Vittorio Emanuele, con questo omaggio alla messinesità degli interpreti e del regista e drammaturgo, unitamente a quella del concittadino Cannizzaro, di certo da riscoprire ancor più. “Mille volti”, racchiudendo drammaturgie originali e riscritture coraggiose, in uno a spaccati della nostra città e a novelle voci teatrali, è inserita di buon grado nella complessiva Rassegna “Naufragar m’è dolce in questo mare” che il direttore artistico Giovanni Anfuso ha compiutamente realizzato. Per gli anni 2026 e 2027 attendiamo le programmate rappresentazioni del Purgatorio e del Paradiso di Dante, come trasposti in lingua siciliana dal compianto Tommaso Cannizzaro.
