Vivere in un cantiere che non esiste

Vivere in un cantiere che non esiste

Pierluigi Siclari

Vivere in un cantiere che non esiste

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martedì 05 Ottobre 2021 - 06:59

Una lettura che ci porterà a chiederci fin dove potremmo spingerci per sfuggire a una realtà che non avesse nulla da offrirci

È ambientato tra le immaginarie Santa Maria e Puerto Astillero – lungo il Río de la Plata – Il cantiere, settimo romanzo di Juan Carlos Onetti, pubblicato per la prima volta nel 1961 e arrivato in Italia solo a decenni di distanza grazie alla casa editrice SUR.

Ritorno inatteso

Larsen, il protagonista, personaggio non nuovo nella produzione dell’autore uruguaiano, torna a Santa Maria dopo un esilio di cinque anni. È un uomo vecchio, basso, tozzo, malvestito, che però ha imparato a camminare come fosse il padrone del mondo e tutti gli dovessero qualcosa.

"Il cantiere" di Juan Carlos Onetti, copertina

Una nuova prospettiva

Nonostante l’apparente sicurezza, Larsen sa di non avere praticamente nulla, né in tasca né davanti, finché incontra una donna, Angelíca Inés, figlia del ricchissimo e famigerato Petrus, proprietario dell’altrettanto famigerato cantiere, e riesce a farsi assumere come direttore generale.

La scoperta della realtà

Solo che il cantiere non è come Larsen, e i lettori con lui, si aspettano. È una struttura fatiscente, i cui ultimi lavori risalgono ormai ad anni prima. Kunz e Gálvez, rispettivamente direttore tecnico e amministrativo, si occupano fittiziamente di riparazioni inutili e contabilità inesistente, mentre sbarcano il lunario vendendo via via al mercato nero le macchine che ancora hanno valore.

Larsen rimane al suo posto. Redige preventivi immaginari, pianifica lavori impossibili, pensa a come spendere gli stipendi che non arriveranno mai, dialoga con Petrus secondo il quale, ora un ministro ora ipotetici soci permetteranno al cantiere di rimettersi in moto al più presto.

Nel frattempo anche il corteggiamento di Angelíca Inés si rivela una farsa; niente di più che una serie di incontri in cui il rispetto del rito prevale sulla comunicazione e sulle emozioni.

Il bisogno di giocare

Perché Larsen, anziché andare a cercare una vera, ultima occasione altrove, accetta di partecipare a questa surreale messa in scena? A spiegarlo è il dottor Díaz Grey, dialogando proprio con l’uomo:

“Sappiamo tutti che il nostro modo di vivere è fatto solo di discorsi, siamo tutti pronti ad ammetterlo, ma non a porvi rimedio, perché ognuno di noi ha bisogno di proteggere la sua farsa personale. Anch’io, è chiaro. Petrus è un buffone quando le offre la direzione generale e lei un altro buffone quando accetta. È un gioco, e sia lei che lui sapete che l’altro sta giocando. Ma tacete e dissimulate. Petrus ha bisogno di un direttore per poter imbrogliare sostenendo che il cantiere è sempre rimasto in funzione. Lei vuole continuare ad accumulare stipendi nel caso in cui un giorno avvenga il miracolo, la faccenda si sistemi e si possa esigere il pagamento. Suppongo”.

Se Larsen partecipa al gioco forse non è tanto per l’ambizione di vincerlo – ammesso che sia possibile – quanto perché partecipare è, ormai, l’unica maniera di sopravvivere.

Leggendo Il cantiere, non avremo solo la curiosità di scoprire dove il gioco porterà Larsen. Sarà infatti impossibile non chiederci quanto saremmo disposti a credere – contro ogni razionalità – a ciò che ci conviene, e fin dove potremmo spingerci per sfuggire a una realtà che non avesse nulla da offrirci.

"Il cantiere" di Juan Carlos Onetti, copertina
Juan Carlos Onetti

Altri suggerimenti di lettura

Il re, il cuoco e il buffone di Daniel Kehlmann

Ohio di Stephen Markley

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