Franco Montenegro: -S. Calogero, un santo “immigrato” che oggi rischierebbe di essere cacciato-

Franco Montenegro: -S. Calogero, un santo “immigrato” che oggi rischierebbe di essere cacciato-

Franco Montenegro: -S. Calogero, un santo “immigrato” che oggi rischierebbe di essere cacciato-

martedì 07 Luglio 2009 - 07:42

Il Vescovo di Agrigento pronuncia parole chiare in favore di una più umana visione dell’immigrazione

Franco Montenegro adesso è vescovo di Agrigento, dopo essere stato vescovo vicario nella nostra diocesi. E’ un messinese che fa onore alla sua città. La profondità del suo pensiero acquista un’energia particolare per la semplicità con cui lo esprime. E’ successo anche domenica scorsa in occasione dell’omelia pronunciata per le celebrazioni in onore di S.Calogero, patrono di Agrigento, diocesi in cui ricade anche Lampedusa, per la sua collocazione geografica al centro dei flussi migratori provenienti dalla vicina Africa. S.Calogero è un santo molto venerato da quelle parti ma oggi, dice Montenegro, rischierebbe di essere cacciato, perché giunse a Roma nel 466 dalla lontana Tracia ed era di colore. Ai nostri giorni sarebbe, dunque, considerato un immigrato clandestino come tanti fratelli che hanno la sfortuna di nascere nel lato sbagliato della terra. Uomini e donne incatenati al sottosviluppo imposto dagli interessi economici dell’occidente che, quando cercano di sottrarsi al loro destino di povertà, vengono criminalizzati e, come si dice, “respinti”. Sembra una parola innocua e liberatoria per le nostre paure, ma è, invece, pesante come un macigno perché “respingere” significa restituire delle persone che aspiravano solo a un pezzetto di felicità a Paesi come la Libia, in cui, a dispetto di ogni tentativo di riabilitazione dettata dalla logica degli affari, la democrazia e il rispetto dei diritti umani restano avvolti in un buio pesto. Nella sua omelia di domenica scorsa ad Agrigento Montenegro chiede di trasformare questa drammatica situazione in un’occasione per arricchire il nostro spirito di comunità e di fratellanza. Ne pubblichiamo di seguito il testo (ringraziamo agrigentoweb.it).

Il termine Calogero, significa “bel vecchio”; nel mondo greco ciò che è bello, è anche giusto e buono. Egli, nato verso il 466 a Calcedonia sul Bosforo, (Tracia), giunse a Roma, ricevendo dal papa il permesso di vivere da eremita. Grazie ad una visione, venne in Sicilia. Fu a Lipari, a Sciacca, poi sul Monte San Cronio, dove è vissuto per 35 anni.

Probabilmente è arrivato su un barcone. Oggi diremmo che è arrivato nella nostra terra senza permesso di soggiorno, con pochi soldi in tasca. Per cui è vissuto di carità, aiutato dalla buona gente di allora. E’ vissuto così nella preghiera e disponibile, nonostante la sua pelle nera, ad aiutare i fratelli bianchi che lo avvicinavano.

Se è così, per coerenza con le leggi di oggi, dovremmo smettere di fare festa, togliere il simulacro di S. Calogero dall’altare e cacciarlo assieme a tutti coloro che non hanno la nostra nazionalità, perché probabilmente è da considerare un clandestino.

Si dice che gli immigrati danno fastidio, che sono poco decorosi o pericolosi. Però, è strano, che non danno fastidio se sono bravi nel giocare a pallone o sanno cantare (per vederli paghiamo e siamo disposti ad affrontare viaggi per vederli)… o li veneriamo senza porci il problema della pelle, se sono santi. Stranieri gli uni e stranieri gli altri.

Chiediamoci: chi di noi sapendo che in un altro paese la media della vita si allunga di venti-trent’anni, non tenterebbe di raggiungerlo? La loro non è una vacanza. Se vengono da noi, è perché la vita nelle loro terre non è vita, è inferno. E se il viaggio è inferno, inferno per inferno vale la pena rischiare. Loro cercano pace, dignità, scuola, cibo. Vogliono vivere.

Il nostro cuore, perciò, si faccia casa per dare accoglienza. Amare è abitare nel cuore degli altri. Le nostre mani si tendano, curino, raccolgano e sostengano. I nostri occhi abbiano uno sguardo di benevolenza. C’è Gesù nel volto dell’uomo che ci è accanto, anche se immigrato. “Ero forestiero e mi avete accolto”.

E’ scritto nella Bibbia: “Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”.

La presenza dello “straniero” nella nostra vita non è un male da estirpare, ma una realtà con la quale confrontarsi. Assieme possiamo costruire una comunità diversa.

Diceva s. Giovanni Crisostomo: “Il cristiano è un uomo a cui Dio ha affidato tutti gli altri uomini”.

L’eucaristia esige che scegliamo se stare dalla parte dei nostri interessi che spesso ci mettono gli uni contro gli altri, o dalla parte di chi cerca l’interesse di tutti. Se metterci dalla parte del male di alcuni o del bene di tutti.

Gesù ci ha parlato di un sogno: “Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli”.

Perché non farlo divenire realtà.

Nell’A.T. era scritto: “Lo straniero che dimora in mezzo a voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi”. Ciò significa che l’accoglienza dello straniero è il prolungamento dell’amore di Dio. “Il Signore ama il forestiero e gli dà pane e vestito: amate il forestiero”.

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. L’accoglienza non è fare una semplice elemosina, ma accogliere la persona che ho di fronte. Accogliere lo straniero è fare spazio nella città, nelle leggi, nella casa, nelle amicizie. L’accoglienza è diversa dalla beneficenza. Insomma il forestiero va accolto come riceveremmo il Signore, cioè con riguardo, con delicatezza, umilmente.

Il mondo e perciò soprattutto il cristiano vanno verso l’unità della famiglia umana. Non è possibile accettare un popolo superiore ad altri popoli. Gesù è morto sulla croce per riunire la famiglia umana: è morto perché nel mondo ci fosse uguaglianza e solidarietà, e non interessi di parte.

Si potrebbe dire: dal modo con cui i cristiani guardano lo straniero e gli esclusi si comprende in quale Dio essi credono.

Se siamo disposti a ciò, facciamo la festa di s. Calogero, altrimenti, come vi dicevo, per coerenza, togliamolo dall’altare e dalla nostra città.

Chiudo con una frase dell’Abbè Pierre: “Io ho tentato nella mia vita di mettere la mia mano nella mano di chi soffriva di più. Per ricompensa mi sono sempre ritro¬vata nell’altra mia mano la mano di Dio”. Che le nostre mani siano sempre piene. Auguri.

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